Il settimo sigillo: il bianco e il nero di una scacchiera dicono più di mille parole PDF 
Paolo Parachini   

La morte è forse l’unica certezza che ci accompagna nel nostro cammino. Si può evitare di pensarci, si può esserne ossessionati, si può rifiutarne la crudeltà, o si può esserne morbosamente attratti. La nostra vita terrena è indissolubilmente legata alla sua stessa fine. Attendiamo, senza volerlo ammettere a noi stessi, che la fine ci mieti con la sua scure, riflettendo su quello che perderemo e su quello che ci attenderà. «Nessuno può vivere sapendo di dover morire come cadendo nel nulla senza speranza».

Le parole del cavaliere Antonius Block ci parlano con una fermezza assoluta, ma costantemente attanagliate dal dubbio. Tornato dalle crociate con la propria fede cristiana ridotta all’osso, si vede giungere la visita di una figura scura, avvolta in abiti neri, ma con un volto che si mostra in una inquietante luce bianca. Quel volto, bianco di cipria, rappresenta la nitida certezza del messaggio di cui si fa voce: la fine è giunta e non lo si può evitare. Una partita a scacchi tra i due, tra la morte e la sua vittima, diventa l’effimero prolungamento di una vita destinata a finire, in cui la speranza di vittoria, da parte del cavaliere, è consapevolmente nulla, e diventa soltanto l’occasione per avere il tempo di riflettere su Dio, sulla fede e sulla natura umana. Antonius Block è accompagnato nel suo viaggio verso casa dallo scudiero Jones, una figura che fa della parola e della ragione la sua arma. Nel suo atteggiamento sicuro e lucido vediamo la netta contrapposizione con il suo signore. Uno ha risposto al terrore della guerra, della pestilenza e della morte con dubbi e timori, l’altro ha risposto, invece, mostrando sicurezza, determinazione e cinico realismo.

I saltimbanchi che incontrano nel loro viaggio rappresentano quella gioia e quella semplicità di vivere che i reduci di guerra hanno quasi cancellato. Josef, Mia, il loro piccolo figlio Mikael e il capocomico Jonal, portano i propri spettacoli per le strade, inscenandoli al fianco di processioni di flagellanti e pentiti, di terrorizzati e deboli uomini che vedono nella malefica peste il giudizio divino, l’apocalisse per un manipolo di poveracci la cui fede è diventata troppo debole. La paura della morte ricorda all’uomo la piccolezza dinnanzi a Dio, e la paura diventa la prima e più importante forma di controllo dell’opinione pubblica e di “arruolamento” di anime desiderose (o costrette dall'autocommiserazione) di donare corpo, anima e denaro alla chiesa. La semplicità dei saltimbanchi, spensierata ma consapevole, affiancata al viaggio verso la morte del cavaliere, rappresenta la duplicità della natura umana, costantemente accompagnata da gioie e dolori, paura e speranza, tragico e comico. Una natura umana fatta di diversità e opposti, così come l’amore coniugale sereno e fedele di Mia e Josef, si contrappone al geloso ed adulterino rapporto tra il fabbro Plog e la consorte Lisa, che fugge momentaneamente con l’attore Jonal, per poi tornare con la coda tra le gambe piangendo e mentendo. Il dubbio tra l’esistenza o meno di un Dio che ci parla col silenzio, di un Dio che i nostri sensi non possono percepire, è il dubbio che Block vuole risolvere prima di morire. Lo domanderà anche ad una presunta strega destinata al rogo, con la morte negli occhi, occhi dove lei crede di custodire Dio, perché Dio è nella morte, come Dio è nella vita.

L’epilogo della partita a scacchi è scontato, e pur sapendolo fin dall’inizio è lo stesso Block a porgere la vittoria al suo avversario: i pezzi cadono, urtati dal mantello del cavaliere, e la morte può ridisporli, a proprio piacimento, così come a proprio piacimento viene a farci visita, col suo mantello scuro e il suo volto bianco. Nel castello di Block, quando sua moglie, rassegnata e consapevole, legge versetti dell’apocalisse, la morte giunge, e con lei la loro fine. Block e la moglie, Jones e la ragazza muta, Plog e Lisa, in fila dietro al cavaliere oscuro, si mostrano come sette figure scure, sulla cima di una collina, che danno spettacolo con una danza macabra, i cui spettatori sono i saltimbanchi che fieri e gioiosi di vivere li guardano ballare verso l'aldilà. Chissà che anche Ingmar Bergman non abbia finalmente trovato il Dio che ha costantemente cercato insieme ai suoi personaggi. In fondo Il Settimo Sigillo è la fiera e magistrale messa in scena dei dubbi di un uomo e dei dubbi dell'uomo. Dubbi che non avranno mai risposta nel nostro breve ed effimero hic et nunc.

 


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