Pagina 1 di 2 Senza Bob Dylan le filmografie di Todd Haynes e Martin Scorsese non si sarebbero probabilmente mai incontrate. Senza soffermarsi sull’analisi di due poetiche radicalmente estranee, è interessante piuttosto ricercare le diverse motivazioni che hanno spinto personaggi con un’idea di cinema così differente ad un progetto incentrato sulla stessa materia. Che Dylan sia una delle figure cardine della cultura della seconda parte del secolo scorso è oggettivo. Il fatto è che lo è per due motivi diversi: da una parte, il cantautore americano è stato un passaggio insostituibile nell’evoluzione della musica popolare, operando una contaminazione seminale fra elementi nuovi e arcaici, fra istanze mainstream e ricerca contenutistica, fra la cultura popolare e quella intellettuale. Il tutto unito ad un talento quasi prodigioso in fase compositiva e ad un carisma interpretativo eccezionale. Ma non è tutto: la figura di Dylan è stata una delle prime consapevolmente e lucidamente mediatiche della storia culturale del ‘900. Il suo istinto geniale alla manipolazione, la capacità nella gestione della propria immagine, il talento nell’intuire le reazioni del pubblico, la sua inafferrabilità e l’ambiguità coscientemente perseguita sono state il catalizzatore per trasformare Dylan da evento puramente musicale a fenomeno mediatico e mitico. Per Scorsese, che già si era trovato di fronte a Dylan durante le riprese del film-concerto The Last Waltz, No Direction Home fa parte di un più vasto progetto di analisi culturale del mondo musicale, iniziato con il blues del Delta di The Blues: dal Mali al Mississipi, e che continuerà con l’uscita imminente di un documentario, Shine a Light, su un altro dei capisaldi della musica popolare del ventesimo secolo, i Rolling Stones: il suo Dylan è principalmente il musicista. Per Haynes, invece, Io non sono qui è la continuazione di un percorso personale ed intimo alla ricerca dell’anima dello spettacolo, dopo la rutilante e imperfetta celebrazione di David Bowie e Iggy Pop di Velvet Goldmine e il mediometraggio allucinato Superstar: the Karen Carpenter Story: Dylan è qui l’ammaestratore di folle, non il suonatore. Nulla dunque, a parte l’oggetto della ricerca, sembra accomunare i due film: il primo attento all’analisi culturale, il secondo quasi esclusivamente concentrato sulle strategie mediatiche, il primo posato e tradizionale, il secondo debordante, contraddittorio, magmatico. Eppure, visti parallelamente, i due film costituiscono un corpus singolarmente coerente, si completano a vicenda, acquistano forza e importanza dal confronto. Questa divergenza/convergenza è evidente fin dalla scelta di campo attuata dai due registi, scaturita da un elemento biografico oggettivo. Il 29 luglio 1966 Bob Dylan subisce un incidente motociclistico che di fatto seziona la sua vita e la sua carriera in due parti distinte. Rimane in ospedale vari mesi, fra i fan si diffonde la notizia che sia morto, alcuni non credono all’incidente e pensano ad un’uscita di scena spettacolare, in piena regola rock. Scorsese utilizza questo dato biografico come termine ultimo della sua analisi, evitando di lavorare su materiale successivo: il suo film e il suo Bob Dylan terminano in quel giorno. Todd Haynes attua una scelta contemporaneamente parallela e opposta: il suo lavoro inizia e termina con l’incidente, ma si apre su una sorta di autopsia del corpo ferito del cantante, dissezione analitica che scinde il suo personaggio in sei corpi distinti che origineranno le storie del film, chiudendosi nuovamente con l’incidente, in maniera circolare. I due film sono opposti a livello geometrico di struttura: una linea (sinuosa, complessa, ma sempre una linea) quello di Scorsese, un cerchio imperfetto quello di Haynes. Una circolarità doppia, ripetuta, esibita: non solo nel segmento dell’incidente, ma anche nel riversarsi dei molti finali nell’intro, affidata ad un personaggio, quello del piccolo Woody Guthrie, che sembra inaugurare il percorso consapevole di come tutto andrà a finire. Opposta è anche l’impostazione dei contenuti. Il soggetto di No Direction Home è riassumibile in poco, la sua complessità è soprattutto interna alle parole di Dylan, mentre la struttura contenutistica è in qualche modo accentrante nel suo tentativo di dare un’organicità ad un personaggio decisamente poco afferrabile: l’approfondimento è verticale e almeno parzialmente cronologico. D’altra parte, definire contenutisticamente Io non sono qui è impresa non da poco. Dopo la scena iniziale dell’autopsia, la dissezione crea sei figure in vario modo identificabili con Dylan, nessuna col suo nome. Il ragazzino di nome Woody Guthrie che attraversa l’America in treni merci decretando massime di saggezza mentre va a trovare il cantante omonimo sul letto di morte. Il cantante poeta simbolista che si chiama Arthur e come Rimbaud è anche vestito, che risponde ad un immaginario interrogatorio. Un cantante folk di protesta. L’attore che interpreta lo stesso cantante folk di protesta in un film di successo. Billy the Kid, invecchiato e libero, alle prese con un mondo in crisi epocale. E infine Jude, cantante folk convertito all’elettricità (il nome è ovviamente simbolico, e il personaggio è l’unico esplicitamente dylaniano), cinico, tossico, dandy e disincantato. Le loro storie si intrecciano in un mosaico dove molti elementi, alla fine, non tornano.
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