L'odio PDF 
Mario Bucci   

Ci sono alcuni film dei quali non si può fare a meno, e ci sono registi dei quali spesso non ci si ricorda più il nome o la carriera, perché legati solo a questi film, a volte rari, a volte unici. È questo il caso de L’odio che, uscito nelle sale nel 1995, detiene ancora oggi un primato di qualità nella rappresentazione antropologica di un fenomeno tipico del nostro tempo: le periferie. Il suo regista, Mathieu Kassovitz, lavora ancora oggi ad alti livelli probabilmente proprio grazie all’eco di questo successo (il film fu premiato a Cannes), sebbene la sua carriera sia completamente cambiata rispetto alle origini. Kassovitz, infatti, prima de L’odio, aveva realizzato il lungometraggio Mètisse (sorta di Jungle fever alla francese), facendo intendere di essere interessato, come autore, alle politiche sociali, alle tematiche dell’integrazione, raggiungendo poi con L’odio quella che sembrava essere la perfetta sintesi del suo ragionamento. Alcune realtà trovano difficile amalgamarsi tra loro, e spesso questo processo di adattamento (sociale, sentimentale, lavorativo, politico e affettivo) genera conflitti che non è affatto detto che il singolo sia capace di gestire.

L’odio è un vero e proprio manifesto del pensiero di Kassovitz: tutte le etnie relegate in un angolo della periferia parigina non possono sviluppare alcuna capacità di integrazione, se non attraverso la politica del conflitto e della lotta. Causa di questo conflitto è principalmente l’autorità, incapace di gestire le micro differenze, di comprenderne le sfumature culturali, allenata principalmente alla repressione del conflitto. Un bell’inizio di carriera per Kassovitz, niente da eccepire: capacità, talento, impegno. Quel che è accaduto poi, però, è stato che il regista si è perso nel business del cinema d’oltralpe, e si è istituzionalizzato con pellicole destinate al grande pubblico (per la maggior parte flop), prive di contenuti e più semplicemente ascrivibili al genere dell’intrattenimento puro. Verrebbe da domandarsi, allora, se L’odio non sia stato un film di successo per altri motivi, non strettamente legati alla bravura del suo autore.

Quali potrebbero essere allora i motivi di un successo che permette al film di primeggiare ancora oggi nel genere e al suo regista di continuare a realizzare film (dopo un lungo elenco di insuccessi di botteghino)? Innanzitutto il protagonista Vinz, interpretato dall’allora giovane e strepitoso Vincent Cassell, delinquente di quartiere carico di rabbia che per tutta la giornata (il film si completa in 24 ore) è affiancato da due figure complementari come Hubert (il pugile riflessivo) e Said, compagni di strada con i quali va girando in cerca di vendetta per quanto accaduto a un ragazzo ucciso dalla polizia. Secondo elemento di successo, la scelta fotografica: un bianco e nero che non solo esclude la varietà cromatica del quartiere, ma che, invece, tende soprattutto a far risaltare l’omogeneità del conflitto (non escludendo nessuno, poliziotti compresi). Una scelta che nel 1995 voleva anche dire allontanarsi dal circuito dei blockbusters. La stessa cosa era avvenuta un anno prima negli Stati Uniti con la commedia underground Clerks (1994) di Kevin Smith, ed era un elemento di distinzione non indifferente tra appassionati e cinefili. Terzo elemento è stato sicuramente la congiuntura storica, poiché non bisogna dimenticare che proprio a metà degli anni Novanta esplose il caso delle banlieue parigine, e che il fenomeno da allora si è via via riproposto, senza che il governo, per cercare di risolverlo, abbia mai proposto una efficace politica di integrazione.

Infine, la scena della molotov che cade sul nostro pianeta e il dialogo ad essa associato “… il problema non è la caduta, ma l’atterraggio”. Immagine impressa negli occhi di tutti coloro che hanno visto il film, e che riassume in un’unica inquadratura un pensiero critico ormai diffuso, ma che all’epoca in cui il film uscì nelle strade fece da collante tra diverse realtà politiche e sociali europee. Una sorta di fil rouge tra le varie forme di antagonismo, che in quella immagine si sono riviste e, grazie a questo film, anche consolidate. Non si può negare, infatti, che L’odio contribuì comunque anche a incoraggiare tutte le forme di lotta periferiche perché, come nella scena degli amplificatori, il film di Kassovitz emerse nel panorama cinematografico diffondendo un’identità di lotta nella quale era possibile riconoscersi. Un film importante, dunque, del quale oggi diventa sempre più difficile raccontare e dimostrarne il successo senza porsi dubbi, soprattutto nel momento in cui per le televisioni di mezzo mondo passa Vincent Cassell che promuove il lusso, e al cinema si è costretti a seguire la scialba e inarticolata filmografia di Kassovitz.

Titolo originale: La haine; Regia: Mathieu Kassovitz; Sceneggiatura: Mathieu Kassovitz; Fotografia: Pierre Aïm; Montaggio:  Mathieu Kassovitz, Scott Stevenson; Scenografia: Laura Fox; Costumi: April Napier; Musiche: Assassin; Produzione: Canal+, Cofinergie 6, Egg Pictures, Kasso Inc. Productions, La Sept Cinéma, Les Productions Lazennec, Polygram Filmed Entertainment, Studio Image; Distribuzione: Mikado Film; Durata: 98 min.; Origine: Francia, 1995

 


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