F for Fake: la storia impossibile di J. Edgar Hoover PDF 
Aldo Spiniello   

J. Edgar sembra iniziare là dove finisce Nemico pubblico di Michael Mann. Dalla maschera mortuaria di John Dillinger, intravista solo per un istante. Il calco di un pericolo scampato e di una leggenda finita. Probabilmente, il segno dell’irruzione della brutalità ufficiale della Storia, con tutto il suo carico burocratico, a sancire la fine dell’ultima epopea fuorilegge d’America. Ma, sia chiaro, è sempre di una maschera che parliamo. Cioè di qualcosa che, da subito, dichiara un’apparenza. Sì, J. Edgar parla la lingua di Nemico pubblico: stessa storia, in fondo, stessi protagonisti, persino una scena identica, quella in cui Hoover viene messo sotto torchio dalla commissione parlamentare, incaricata di decidere sui finanziamenti al Bureau of Investigation. Ma, in realtà, ne rappresenta il calco, lo specchio rovesciato. Il lato oscuro. Se Michael Mann, nel suo sogno di un visibile assoluto, moltiplica all’infinito le immagini, superando i limiti del quadro in un riflesso, in un delirio digitale, Eastwood, al contrario, obbliga il suo fidato direttore della fotografia, Tom Stern, a spingersi sempre più nell’opaca materia di un nero che, se, da un lato, vuole richiamare l’immagine del gangster movie anni Trenta, al tempo stesso divora i contorni di Hoover e dei personaggi, facendone perdere i confini, i tratti e i movimenti.

Ecco: Dillinger è un corpo ‘assente’, eppur sempre misteriosamente in campo, un fantasma che attraversa e manda all’aria la storia, un’idea di libertà che dona agli altri, alla gente, la percezione di un’altra vita possibile. Almeno finché la Storia non si prende la sua rivincita, con il colpo fatale di Charles Winstead/Stephen Lang. Hoover, di contro, sogna di essere immagine e di dominare le immagini, ma è costretto a rinnegare l’essenza dei propri sentimenti, desideri e paure, a nascondersi nel carcere dell’irrealtà. I due avversari s’incontrano sullo stesso terreno e si specchiano. L’uno appare nella flagranza della sua verità, è ma non esiste, l’altro non appare, ma esiste nella concretezza delle sue debolezze. E perciò se i sentimenti di Dillinger sono magnificamente romantici, quelli di Hoover sono meschinamente umani, troppo umani. Entrambi, a ogni modo, affrontano gli stessi nodi problematici. Sovvertono di segno la Storia, rimettendone in discussione i fondamenti e le linee. E giocano con il potere delle immagini.

Nel ritratto complesso di Hoover, il padre padrone dell’FBI, Eastwood lavora tra le pieghe del tempo, come già aveva fatto in Flags of Our Fathers e Bird, e dimostra, qualora ce ne fosse ancora bisogno, come la classica linearità del suo cinema sia, in realtà, soltanto un mito. Una delle tante versioni possibili, come se il suo lavoro vivesse già da sempre in un indecifrabile giardino del bene e del male. Quel che è certo è che Hoover, per Eastwood, sembra incarnare a pieno le teorie di Michel Foucault. Nella sua ossessione di una scienza poliziesca capace di analizzare e interpretare tutti gli indizi e di mappare la dissidenza e il crimine in modo completo e costante, c’è tutta la volontà di dominio di un potere disciplinare che si esercita attraverso la sorveglianza gerarchica e la sanzione normalizzatrice. È l’esigenza istituzionale di un esame continuo degli individui, individuati (appunto) ripartiti e classificati in base alla pericolosità o alla rispondenza alle regole e ai dettami e, quindi, successivamente, soggetti ad approvazione, normalizzazione o esclusione. Ma a donare un fascino sinistro a quest’idea hooveriana è la sua dimensione utopica. Schedare, incasellare, monitorare, spiare, colpire con l’esempio: tutto è finalizzato a rendere sostanzialmente inutile l’intervento. Il limite all’infinito dello stato di polizia non può che essere l’assenza di polizia. Per questo l’accusa implicita dei politici che rinfacciano a Hoover la mancanza di esperienza sul campo, seppur ferisce lo stupido orgoglio dell’uomo, non intacca minimamente i presupposti di una pratica di potere che si ramifica in tutta la società, dall’alto al basso. Hoover non ha bisogno di arrestare nessuno, perché la sua posizione è garantita dall’efficacia invasiva del metodo. Ma è proprio nella sua applicazione cieca e sistematica, che quel metodo mette in luce tutte le distorsioni che lo minano dalle fondamenta. E così si arriva alla follia dei dossier personali palesemente inventati, terribile arma di ricatto, che tiene in scacco per oltre quarant’anni i politici di turno. Ma fin qui siamo solo alla superficie delle cose. Eastwood va oltre la facciata, per addentrarsi proprio nei vuoti del sistema, nelle crepe che emergono dalle aberrazioni del personaggio, dalla strumentalità personalistica dei suoi modi, riflesso di psicosi, paure, insicurezza.

Hoover è ossessionato dall’immagine, perché perfettamente consapevole della sua valenza politica profonda. È la microfisica del potere che va di pari passo con la sua dimensione spettacolare. Per questo l’utilizzo massiccio, sistematico e spregiudicato di tutti i media. I cinegiornali, i fumetti con i G-Men e Hoover con la mitraglietta in mano, i gadgets delle patatine, i pubblici proclami di fronte alle commissioni governative. Fino al cinema. Tutto per dare una ben precisa idea di sé e del suo Bureau, un’idea di efficienza e misura, ma anche coraggio e virilità. E, però, Hoover ha bisogno di costruirsi un’immagine, anche per mascherare tutte le proprie debolezze d’uomo. È come il gioco dello specchio (sempre specchi) cui lo obbligavano i medici da bambino, per superare la sua balbuzie. Ed ecco, allora, il centro esatto del discorso di Eastwood sta qui, nel dimostrare come il politico sia, essenzialmente, un affare privato, affondi le sue radici in esso. E come, viceversa, ogni affare privato sia di per sé una questione politica.

J. Edgar, svela, in un colpo solo, il dramma di un personaggio, incapace di rivedere se stesso, se non negli attimi in cui si specchia davvero (il vertiginoso momento in cui indossa gli abiti della madre, per tornare a lei), e, d’altro canto, il nodo centrale del nostro rapporto con il potere. La battaglia da combattere va fatta sulle immagini e sull’immaginario che esse creano, perché è su quel terreno che si ridefiniscono continuamente i rapporti tra il potere e la resistenza. Tutto l’apparato spettacolare messo in campo da Hoover mira a una costruzione della percezione del proprio lavoro da parte del pubblico medio. Impresa che si compie nell’istante in cui James Cagney da public enemy si trasforma in G-Man. Stesso volto, stessa voce, stessi atteggiamenti, ma colti nel loro passaggio vertiginoso e pericoloso da una parte all’altra della barricata. Il nemico pubblico si appropria delle istituzioni. E Eastwood rende il passaggio evidente, forse perché sente che quella parabola appartiene al suo stesso personaggio, da straniero senza nome, texano degli occhi di ghiaccio, a padre sensibile e amorevole del cinema americano. Ma, soprattutto, Eastwood attraversa la storia del cinema, arrivando a farla coincidere con la Storia della nazione. Il cinema come unica storia possibile, oggi.

Questo è un film di icone: Cagney, Shirley Temple, Ginger Rogers, Dorothy Lamour e Charles Lindbergh, personaggio che è di per sé immaginario. Ma è anche un film che contiene in sé l’eco di altro cinema, oltre ogni epoca: dal gangster movie a Welles, sino a un Di Caprio che sembra venire direttamente da The Aviator di Scorsese. Histoire(s) du cinéma. Che si condensano, in ogni caso, nello sguardo lucido di Eastwood, che continua a dichiarare la sua incapacità di dire la verità delle cose, se non attraverso un riflesso (torniamo a Mann?). Perché la storia è irraccontabile, oltre ogni ricostruzione. E il cinema è artificio. Come la vita, probabilmente. Sempre. A dispetto di chi pensa che Eastwood sia un classico. Non è un caso che J. Edgar sia una grande esibizione di make up, un film di maschere che denunciano il proprio peso, fino a nascondere l’anima (e ciò vale specialmente per Clyde Tolson, il personaggio, in fondo, più sfuggente). E, d’altro canto, non è un caso che Eastwood, nella sua intervista ai Cahiers du cinéma, stabilisca un legame tra Hoover e il Little Bill de Gli Spietati: “È Gene Hackman ne Gli Spietati: è il cattivo della storia, ma allo stesso tempo è qualcuno che cerca di fare ciò che crede giusto”. Ma soprattutto, aggiungiamo, è un uomo che detta le sue memorie, manipolandole ad arte. Fino a prova contraria.

F for Fake. Ciò che rende davvero vertiginoso un film come J. Edgar è la sua capacità di arrivare al cuore della Storia, negandosi la possibilità stessa di una storia. Costruendosi su un’ellissi e quindi su un’eclisse. Come se, ancora e sempre, il punto centrale fosse il bambino di Changeling condannato al vuoto del fuoricampo. Tutto ciò assomiglia, più o meno pericolosamente, al nostro modo di vivere, di contenerci e fuggire il rischio della verità e della felicità. Il momento in cui Hoover e Tolson mangiano insieme è un altro melodramma trattenuto, un buco nero di parole non dette e sentimenti negati, occasioni perse. Come I ponti di Madison County, giustamente. E, oltre, Million Dollar Baby, fino ad arrivare ai rapporti impossibili di Un mondo perfetto, uccisi per vigliaccheria o per l’obbligo di una giustizia che poco ha a che fare con la natura. Ed è proprio nell’infelice miseria di quest’esistenze bloccate che Eastwood, in controluce, fa emergere la sua idea rivoluzionaria. Che non è il sottrarsi alla vista, l’eresia del nemico pubblico. Ma, semmai, è aprirsi davvero allo sguardo dell’Altro. È l’I see you di Cameron e Avatar. Il vedersi, da un capo all’altro dell’universo (Space Cowboys), e riconoscersi, oltre l’immagine, nella verità della carne, degli splendori e delle debolezze. Fino a tramutare lo sguardo nella terribile e magnifica concretezza di un contatto. Quello, eterno, di Matt Damon e Cécile De France nel finale di Hereafter.

 


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