Ci sedemmo dalla parte del torto perchè tutti gli altri posti erano occupati.
(Bertolt Brecht)
È raro trovare un film in cui convergano i giudizi positivi di critica e pubblico praticamente all'unanimità. Orso d'oro all'ultimo Festival di Berlino con contemporanea acclamazione per tutti gli interpreti maschili e femminili, candidato all'Oscar per il miglior film straniero, apprezzato e distribuito in tutto il mondo, ottima partenza anche in un paese in piena recessione culturale come l'Italia. Al quinto film, e dopo la convincente prova di About Elly (Orso d'argento al Festival di Berlino 2009), Asghar Farhadi sforna il suo capolavoro narrando la storia di una coppia iraniana, Nader e Simin, che si sta separando perchè lui, dovendo accudire il proprio padre malato di Alzheimer, non vuole seguire lei all'estero. Spettatrice innocente di questa diatriba familiare è l'undicenne Termeh (interpretata dalla figlia del regista, Sarina Farhadi) cui toccherà alla fine l'onere di una scelta dolorosa ma inevitabile.
Nonostante la violenta repressione del regime (è di pochi giorni fa la notizia della condanna in appello a sei anni di reclusione per Jafar Panahi), il cinema iraniano riesce a confermare la sua vitalità e la sua forza morale con un'opera che sembra rivelare la solida formazione teatrale di Farhadi. Dopo un full frontal che mostra i due personaggi manifestare davanti al giudice (e alla macchina da presa) le ragioni della loro richiesta di separazione, Farhadi conduce la narrazione con la teoria delle onde concentriche prodotte dal sasso in uno stagno: l'allontanamento di Nader e Simin determina una serie concatenata di eventi che si ingarbugliano in maniera esponenziale e vanno a interessare famiglie di diversa estrazione sociale. La sceneggiatura è perfetta nel disegnare lo stretto rapporto tra un'azione e le sue conseguenze, con una sfumatura poliziesca in cui, tra bugia e verità, più si cerca di liberarsi del nodo scorsoio più si assomiglia a tanti topi in trappola (evidente qualche analogia con il Carnage polanskiano). Siamo lontani dalla lentezza meditativa di Kiarostami o dalla vibrante protesta di Panahi: qui prevalgono le mezze misure, i dialoghi serrati, la mancata separazione manichea tra buoni e cattivi, la denuncia sociale nascosta dietro porte e barriere architettoniche, il credo religioso contro la ragione di Stato. Come direbbe Paolo Sorrentino, "Hanno tutti ragione": si può simpatizzare per ciascuno dei personaggi rappresentati anche perchè coerenti con le loro motivazioni psicologiche. Razieh religiosissima che però nasconde al marito Hodjat il suo lavoro di collaboratrice domestica (con dubbi se spogliare un malato per lavarlo possa rappresentare peccato mortale); lo stesso Hodjat che vive in maniera frustrante il rapporto con gente più istruita e ricca; Termeh che misura attraverso le sue lenti la coerenza del padre e le false verità della madre; la piccola figlia (cinque anni) di Razieh che guarda con occhi spauriti le assurdità del mondo degli adulti; il giudice che cerca di mediare tra l'applicazione della legge e il buon senso; il vecchio malato che prima di chiudersi in un mutismo stolido e indifferente invoca il nome di Simin. Tutti hanno un buon motivo per giustificare i loro comportamenti e tutti separano la legge del Corano da quella dello Stato, trattandole come materie rigorosamente distinte.
Trepidiamo così per i personaggi e partecipiamo all'interno dell'azione, con una macchina a mano molto mobile che ci avvolge e coinvolge. Tanti vetri opachi e smerigliati, porte, muri divisori: il problema dell'Iran moderno sembra essere una enorme dicotomia tra principi etici e principi religiosi, una mancanza di comunicazione tra le diverse classi sociali, una paura trasversale che si riflette nelle pupille delle nuove generazioni schiavizzate da un governo fondamentalista. Giorno dopo giorno, litigio dopo litigio, il solco che si crea tra due punti di vista differenti diventa invalicabile: maschile e femminile, orientale e occidentale. Simin e Naser sono entrambi ferocemente convinti di sedere dalla parte della ragione e aspettano che l'altro faccia il primo passo; ma in questa fase di stallo sono proprio i bambini e gli adolescenti a vivere sulla propria pelle la lacerazione di un'anima divisa in due. Una separazione si chiude quindi perfettamente su una stupenda immagine in diagonale di mondi così vicini ma irreparabilmente così lontani.
TITOLO ORIGINALE: Jodaeiye Nader az Simin; REGIA: Asghar Farhadi; SCENEGGIATURA: Asghar Farhadi; FOTOGRAFIA: Mahmoud Kalari; MONTAGGIO: Haydeh Safi-Yari; MUSICA: Sattar Oraki; PRODUZIONE: Iran; ANNO: 2011; DURATA: 123 min.
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