Non bussare alla mia porta PDF 
di Francesca Druidi   

Stesso regista, Wim Wenders. Stesso co-sceneggiatore, Sam Shepard. Stessi motivi portanti del discorso filmico: il difficile rapporto padre-figlio, il viaggio come privilegiata modalità di scoperta di sé stessi e delle proprie radici identitarie, il tentativo di (ri)costruire relazioni irrimediabilmente spezzate. Sono profondamente imparentati Non bussare alla mia porta, ultima opera del cineasta tedesco presentata al 58esimo Festival di Cannes, e Paris, Texas (1984). Anche se questa volta Sam Shepard è il protagonista della pellicola, incarnando Howard Spence, vecchia gloria del cinema western ormai sessantenne, impegnato sul set di un film minore del genere americano per eccellenza, "Il fantasma del West", ma sempre più disilluso e solitario.

Resosi conto della vacuità della sua esistenza, dissipata tra alcool, droga e sesso facile-senza-impegni, Howard fugge nel bel mezzo delle riprese del film e fa perdere le sue tracce alla produzione per nascondersi dalla madre (Eva Marie Saint, indimenticata interprete di Fronte del porto), con la quale non ha contatti da trent'anni. Sarà la donna a offrirgli una ragione di vita, una motivazione che conferisca un senso al suo percorso: un figlio di cui non immaginava l'esistenza, nato proprio trent'anni prima dalla fugace unione con Doreen (Jessica Lange), un tempo cameriera nel bar di Butte, in Montana, dove era stato girato uno dei maggiori successi della carriera di Howard. La possibilità di un futuro per l'attore non può che passare attraverso il viaggio (compiuto con la macchina del padre) verso Butte e l'aperto confronto con i fantasmi del passato, rappresentati dalla donna che ha abbandonato troppo superficialmente e dal figlio Earl (Gabriel Mann), che gli assomiglia come una goccia d'acqua: introverso, scontroso, testardo, restio alle relazioni sentimentali per difesa e timore di essere ferito. Ma soprattutto carico di rabbia e di livore nel momento in cui apprende dell'esistenza del padre. A seguire Howard sono Sutter (Tim Roth), imperterrito responsabile assicurativo della casa di produzione cinematografica, incaricato di riportare l'attore sul set, e la giovane Sky (Sarah Polley), probabile altra figlia del divo, creatura angelica che tenta invece di instaurare un dialogo con l'uomo, custodendo gelosamente nelle sue braccia l'urna con le ceneri della madre appena scomparsa (con sequenze che curiosamente rimandano a un film appena uscito nelle sale italiane, Elizabethtown di Cameron Crowe).

In questo road-movie dalle tonalità cromatiche e testuali melodrammatiche, smorzate però da note surreali, le suggestioni già condivise da Paris, Texas si fondono con i temi dell'identità - quella che Howard tenta di formarsi in opposizione all'identità mediatica costruita dai giornali (i ritagli raccolti dalla madre in un album) - e della memoria, non tanto mentale quanto affettiva, che per il protagonista si declina in un rifiuto dello sguardo percepito come ostile e nemico (il compagno di scuola che viene brutalmente allontanato). Non bussare alla mia porta instaura una continua dialettica tra interno ed esterno, intesi non solo come spazi fisici ma anche come spazi intimi e personali, dove l'essere padri e l'essere figli implica aprire le porte sbarrate del cuore e dell'animo. Emblematica è la scena in cui la panoramica circolare di Wenders abbraccia Howard, seduto sul divano che il figlio ha scaraventato in mezza alla strada, disegnando attorno a lui una casa ideale, prefigurazione del finale che, non a caso, vedrà le relazioni filiali ricomporsi e annodarsi.

Celebrando la potenza salvifica delle immagini, quelle stesse immagini che Sky ha scrutato per anni alla ricerca di un ponte biologico e umano con il padre, e di conseguenza del cinema (nella fattispecie il western, la cui parabola segue parallelamente quella di Howard Spence), Wenders gira un'opera esteticamente notevole, esaltata dall'eccellente fotografia di Franz Lustig, capace di stabilire un rapporto empatico e ontologico tra i personaggi e gli ambienti in cui si muovono: la valle rocciosa del Moab, Elko in Nevada, dove vive la madre di Howard, e appunto Butte, in Montana, simboleggiano di volta in volta l'alienazione, la solitudine, lo spaesamento, ma anche il risveglio e l'accettazione di sé. Ma la tensione narrativa non regge per tutta la durata del film, probabilmente perché Wenders e Shepard scelgono di non approfondire mai integralmente l'intreccio emozionale tra i personaggi, prediligendo un approccio più distaccato e ironico rispetto a Paris, Texas.

Non bussare alla mia porta, stilisticamente suadente, convince ma non cattura, anche perché, concentrandosi in maniera privilegiata sull'evoluzione di Howard, trascura in modo inevitabile i caratteri di Sky ed Earl, conducendo il film verso un "happy ending" un po' frettoloso. Rispetto a Paris, Texas, emerge inoltre una patina crepuscolare sullo sguardo che Wenders offre degli Stati Uniti: forse perché questo film potrebbe costituire - per molto tempo - l'ultima tappa del viaggio americano del regista tedesco, dopo l'amara riflessione sulla nazione statunitense post-11 settembre de La terra dell'abbondanza.

 


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