Happy Family è un film sulle paure. Ezio, il personaggio interpretato da Fabio De Luigi, ne elenca molte all’inizio del film. Quali sono le sue di paure?
Sono molte, la più grande che ho è quella dell’arroganza. Temo coloro che credono che il loro sia l’unico Dio, quelli certi di detenere la verità. In questo senso sono un fan di Voltaire quando diceva “Non condivido ciò che dici, ma sarei disposto a dare la vita affinché tu possa dirlo”.
Le paure dei suoi spettatori pensa di conoscerle?
Credo siano timori molto concreti: il lavoro, arrivare alla fine del mese … e poi la paura di ciò che non si conosce, di quello che appare come diverso.
In una sequenza del film ad un certo punto si legge una frase scritta da Groucho Marx “Preferisco leggere o vedere un film piuttosto che vivere … nella vita non c’è trama”. Perché l’ha inserita?
Perché la vita è come il jazz o la commedia dell’arte, si deve improvvisare. Solo i più bravi ci riescono però. Io ad esempio vivo con grande partecipazione ogni mio film. Scelgo una musica quando comincio a scrivere la sceneggiatura e non la abbandono fino a quando non ho terminato la stesura, mi vesto come i personaggi che racconto ... in questo caso mi sono comprato una bicicletta per girare per Milano, come il protagonista. L’uscita nelle sale del film è il momento per me più doloroso, devo lasciarlo andare e rientrare nella quotidianità, una delle cose delle quali ho maggiormente paura.
Nel film lei ha fatto un uso particolare del colore … cosa voleva sottolineare?
La scelta di adottare diverse tonalità, tutte molto marcate, in momenti diversi del film, come il giallo delle strade, il rosso degli interni delle case, indica allo spettatore che quella che stiamo raccontando non è la realtà. Quelli che parlano e si muovono sullo schermo non sono personaggi veri. Nelle scene girate in esterna poi il taglio della macchina da presa è sempre alto, elimina volutamente la strada che è un elemento fondante della realtà.
Oltre al riconosciuto omaggio al finale de I soliti sospetti sembrano evidenti alcuni riferimenti a certo cinema americano, in particolare a un regista come Wes Anderson. È d’accordo?
L’omaggio a I soliti sospetti l’abbiamo messo di proposito, anche se il senso della sequenza è differente: qui il significato della lunga carrellata sugli oggetti sta nel fatto che ciò che ha raccontato Ezio era già tutto presente nella sua vita. Per quanto riguarda Wes Anderson, di certo c’è che un certo tipo di famiglie, caratterizzate da personaggi molto forti, disegni in qualche modo la nevrosi della famiglia moderna. The Royal Tenenbaum è un film che mi è molto piaciuto. Devo dire che ammiro la nuova generazione di sceneggiatori come Charlie Kaufman e registi come Michel Gondry.
Quest’anno il cinema italiano si è occupato spesso del tema della famiglia. Come spiega il fatto che tanti registi abbiano voluto tornare su questo punto?
Forse perché con la crisi di altri grandi valori fondanti come il sentire religioso o le ideologie politiche non resta che ritornare al nucleo fondante. Io però ho volutamente usato il termine inglese “family” che ha una significato diverso, si riferisce al concetto di “community”, ovvero tutti noi, tutti coloro che oggi stanno affrontando il loro viaggio sulla terra.
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