The Road to Guantanamo: il cammino forzato verso la perdita del corpo e dell’uomo PDF 
di Caterina Rossi   

L'ultimo lavoro del regista inglese Michael Winterbottom riporta idealmente alle tematiche affrontate nei suoi film precedenti, come Benvenuti a Sarajevo (1997) e Cose di questo mondo (2002), all'uso del cinema come mezzo di denuncia delle contraddizioni del nostro tempo. Se Cose di questo mondo raccontava le vicende drammatiche di due giovani cugini afgani che decidono di recarsi a Londra per sfuggire al regime dei talebani, The Road to Guantanamo narra l'esperienza di quattro amici pakistani che vivono a Tripton, in Gran Bretagna, e il ritorno nella terra di origine per il matrimonio di uno di loro. Il tragitto è inverso rispetto al film precedente, ma la drammaticità della vicenda, tratta da una storia realmente accaduta, è ancora più intensa.

Shafiq, Asif, Monir e Ruhel, nell'ottobre 2001, partono per il Pakistan, inconsapevoli di ciò che li attende. Si recano in una moschea dove l'imam parla della situazione d'assedio in Afghanistan, dove tanti fratelli musulmani hanno bisogno di aiuto. Con spirito d'avventura giovanile i ragazzi decidono di passare qualche giorno in Afghanistan. Sarà l'inizio della loro fine. Winterbottom sceglie la strada impervia dell'intersezione tra documentario e fiction, utilizzando spezzoni di interviste dei protagonisti reali, raccolti dal co-regista Mat Whitecross, alternati alla fiction vera e propria. I quattro ragazzi, senza nemmeno accorgersene, si trovano nel centro pulsante di una guerra brutale e, nel tentativo di tornare in Pakistan, vengono trasportati con l'inganno in un villaggio talebano. Il regista, attraverso l'uso della camera a mano, si incolla letteralmente ai personaggi, diventando il loro occhio, respirandone l'epidermide per renderne l'ansia causata dall'incertezza. Monir si ammala e durante la fuga da un attacco sferrato dall'Alleanza del Nord non viene più trovato. Shafiq, Asif e Ruhel non lo rivedranno mai più. La concitazione della fuga notturna, claustrofobica, nel buio, è colma di angoscia, espressa dallo scorrere delle immagini illuminate dalla luce delle bombe che rende visibili solo il senso di morte e d'insicurezza. Catturati dall'esercito dell'Alleanza del Nord i tre verranno incarcerati a Kandahar, senza capire il perché, in un costante stato d'incomprensibilità degli eventi, accentuata anche dal fatto che ormai ricordano a malapena la loro lingua d'origine, e si trovano inghiottiti da una voragine d'incomunicabilità infinita. In questo punto della pellicola, Winterbottom raggiunge il massimo d'efficacia narrativa, mostrando il punto esatto, la soglia in cui vittima e carnefice diviene irrimediabilmente indiscernibile e si risolve attraverso una spirale di violenza: in risposta al terrorismo si usa il terrore, il nemico è indistinguibile, quindi tutti sono colpevoli. Il nemico diventa il fantasma onnipresente del nemico stesso, diviene idea del nemico al di là della presenza fisica, che è accidentale. La "colpa" di Shafiq, Asif e Ruhel è generata dall'appartenenza etnico-religiosa. Il regista raccontando questa storia, documenta e porta l'attenzione sul conflitto Noi-Loro, il mondo "libero" con i suoi valori e l'Asse del Male. L'uomo in quanto uomo, nella guerra civile mondiale che è in corso, viene perso di vista. I tre ragazzi vestiti all'occidentale, ormai cittadini inglesi a tutti gli effetti, ma di fede musulmana, vanno ad incarnare il nemico assoluto che, a causa della globalizzazione, si insinua in Occidente per minarlo dall'interno. L'umanità scompare e si degrada in un'etichetta che definisce unicamente la difformità di valori e appartenenza. L'essere umano, con la sua ricchezza data anche dalla differenza etica, etnica e culturale, viene completamente annientato, diventa carne, e l'unica forma di comunicazione è la tortura fisica e psicologica: il luogo dove ciò si concretizza tragicamente conduce direttamente a Guantanamo.

L'11 settembre 2001 ha portato alla "complicazione del rapporto fra spazio esterno e spazio interno […] ha aperto un interrogativo identitario: più che una contrapposizione fra identità ben definite - Noi e Loro, appunto - comporta infatti un gioco di specchi in cui le identità corrono il rischio di confondersi e di perdersi. Il Nemico non è un altro […] è anzi un'alterità indefinitamente distante e mostruosa ma al tempo stesso interna, inquietante" (1). I tre protagonisti vengono trascinati da questo meccanismo direttamente a Camp X Ray e a Camp Delta, dove subiranno la trasformazione da uomini a nuda vita animale, colpevole a priori, e che dunque "merita" la sospensione di ogni diritto. I tre pakistani diventano vittime integrali della guerra globale, espressa dalla biopolitica che si appropria dei loro corpi, della loro vita, inglobandoli in un campo di reclusione, dove la vita normale e la norma, la legge, sono sospese e le azioni scandite da ordini, dove i prigionieri non possono muoversi e comunicare tra di loro. Possono solo eseguire: "Faccia a terra!Non muoverti/Muoviti!Non guardarmi!". Le voci dei carcerieri spesso arrivano dal fuori campo e i prigionieri vengono relegati dal regista in inquadrature cristallizzate, immobili, espressione della loro totale impotenza. Il ricorso al concetto filosofico di biopolitica è utile per comprendere i nuovi rapporti di forza innescati dagli avvenimenti dell'11 settembre 2001, dei quali Guantanamo è la risposta inumana. La biopolitica approfondisce i fenomeni riguardanti il governo degli esseri viventi espresso dalla legge e le trasformazioni che fanno della vita umana la posta in gioco della politica contemporanea. Ciò determina la scomparsa della categorie interpretative di sovranità e legge legate ai confini, tipiche della modernità. L'avvento della guerra globale elimina la presenza di confini determinabili con precisione: la politica si gioca sui corpi dei singoli. Nel film di Winterbottom sui corpi costretti nelle tute arancioni, sugli arti incatenati di Shafiq, Asif e Ruhel.

"Honour bound to defend freedom" è l'insegna posta fuori dal carcere, simbolo di una contraddittoria libertà da raggiungere attraverso la negazione della libertà stessa. Il merito del regista è di entrare nel cuore di questa contraddizione e di renderla visibile allo spettatore, nella società in cui la visibilità è la condizione necessaria per conferire credibilità agli eventi. L'impatto su chi assiste allo scorrere delle immagini è empatico, come empatico è l'atteggiamento del regista, che si accosta ai suoi protagonisti scegliendo di seguirli da vicino, scomparendo, lasciando solo nei frangenti più concitati il movimento della camera a spalla, come traccia della sua presenza. L'efficacia narrativa del film, a tratti, è indebolita dagli inserti delle interviste ai protagonisti reali della vicenda, e dai frammenti dei notiziari della CNN che spezzano il ritmo cinematografico della fiction, ma nonostante questa scelta formale, difficile da gestire in alcuni momenti, Winterbottom raggiunge il suo scopo. Riesce a rendere chiara e nitida l'inenarrabilità dell'esperienza paradossale dei tre giovani pakistani, i quali, dopo più di due anni, verranno scagionati e scarcerati, senza nessun ammissione di colpa da parte del governo americano. In fondo George W. Bush giustifica l'esistenza di Guantanamo Bay con poche parole: "quello che sappiamo, è che queste persone sono cattive". Il regista sospende il giudizio e lo consegna allo spettatore, lasciandolo intravedere lungo la trama delle immagini che si susseguono sullo schermo.

Note:
(1) Galli C., La guerra globale, Laterza, Bari, 2002

 


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