Il verdetto e l’alchimia tra Lumet e Mamet: un filo teso tra il noir e il legal-thriller? PDF 
Piervittorio Vitori   
di Piervittorio Vitori

Nel 1982 David Alan Mamet è un 35enne drammaturgo che si sta facendo strada nella A-list di Broadway e Hollywood. Nella prima metà degli anni '70 ha messo in fila tre successi sulle scene - The Duck Variations, Sexual Perversity in Chicago e American Buffalo – e, al cinema, è fresco reduce dal remake de Il postino suona sempre due volte, per la regia Bob Rafelson. Il progetto che porta a Il verdetto, e per cui Mamet adatta il libro omonimo di Barry Reed, è inizialmente pensato per Robert Redford, che alla 20th Century Fox vorrebbero nella doppia veste di regista e protagonista. Le perplessità della star nei confronti dello script di Mamet (ed in particolare, pare, dell'opportunità di interpretare un alcolista) costringono lo sceneggiatore a diverse riscritture, finché è Redford a gettare la spugna e a chiamarsi fuori. Sale allora a bordo il veterano Sidney Lumet, che riprende la versione primigenia del copione e si porta "in dote" un Paul Newman che, a questo punto, accetta di vestire i panni di Frank Galvin. Si completa così il trio cui va ascritta la maggior parte del merito per l'ottima riuscita del film (senza dimenticare il resto del cast, tra cui spicca un eccellente James Mason).

Può apparire paradossale - a maggior ragione considerando che tra le cinque nomination all'Oscar guadagnate dal film (e tutte meritate) c'è anche quella per la miglior sceneggiatura non originale - notare come siano a malapena accennati alcuni degli elementi che oggi vengono considerati distintivi della scrittura di Mamet. La volgarità del parlato è presente solo alla fine del dialogo tra il protagonista e l'anziana infermiera che si rifiuta di deporre al processo, quando questa, sulla porta di casa, lo caccia con quel "Siete un branco di troie!". Allo stesso modo, il parlarsi addosso dei personaggi emerge in maniera evidente solo nella scena dell'interrogatorio di Galvin al dottor Towles, quando il primo, incalzando l'interlocutore con una raffica di domande, di fatto gli impedisce di rispondere. Ma l'assenza di quello che successivamente negli Stati Uniti ci si compiacerà di definire Mametspeak, di quella "poetica" riproposizione del gergo urbano (1), lungi dal risultare un difetto, è invece il segnale del felicissimo connubio tra la penna dello sceneggiatore e l'occhio del regista. Come Mamet, infatti, sembra lavorare di sottrazione sul copione, sviluppando dialoghi la cui prima preoccupazione sembra quella di essere funzionali alla narrazione senza volerla inutilmente appesantire, così Lumet "toglie" spesso, spogliando il protagonista e l'ambiente che lo circonda. La prima inquadratura è in questo senso esemplare, offrendoci, senza bisogno di dialogo, un primo ritratto del protagonista, sommario ma efficace. Galvin si trova in un bar, ripreso di profilo mentre sta giocando ad un flipper. Sul davanzale della finestra che si trova oltre la sua figura, un portacenere con una sigaretta accesa e un boccale di birra. Il protagonista, dopo qualche secondo, lascia cadere una pallina che avrebbe potuto "salvare": un primo, vago accenno a quel disincanto che il caso di Deborah Kaye lo aiuterà a vincere. Un fattore non secondario della messa in scena è la scelta di Lumet di girare in profondità di campo: il regista, cioè, ci permette di guardare fuori dalla finestra; anzi, dal momento che Newman è ripreso in controluce, pare quasi che ci inviti a farlo. Peccato che al di là del vetro non vi sia nulla di significativo: solo la Boston invernale, innevata e desolata, che vedremo più volte nel prosieguo del film. Un'inquadratura analoga ritornerà altre due volte nel corso della pellicola, a segnalare le tappe della graduale evoluzione del personaggio: in un primo caso, dopo 10' dall'inizio, una leggera differenza nel posizionamento della mdp fa sì che il protagonista non sia più in controluce ma a favore di illuminazione; decisamente più significativa la scena che si ha di lì a mezz'ora, quando Galvin, reduce dalla prima notte d'amore con Laura Fischer, riesce a stabilire un nuovo record di punti al flipper.

E a proposito del rapporto tra il personaggio di Paul Newman e quello di Charlotte Rampling, anche qui i diversi passaggi sono evidenziati da particolari scelte di messa in campo e illuminazione. Facciamo un passo indietro: dopo che Frank ha incontrato per la seconda volta Laura e i due si sono presentati, eccoli ad un tavolo a cenare. Al di là dei campi/controcampi corrispondenti ai primi piani dei due, è interessante considerare l'establishing shot che ci fornisce la cornice della scena e vede i due personaggi colti di profilo. Qui l'ampiezza di messa a fuoco della mdp è più ridotta che nell'inquadratura iniziale, concentrandosi quasi unicamente all'altezza dei due volti: considerando che anche in questo caso non succede nulla "al di là" della coppia Newman/Rampling, ecco che l'assenza di profondità di campo, unita alla presenza del dialogo, porta l'attenzione sui personaggi. Tra i due, la differenza di messa in scena è data dal fatto che la Rampling ha in controluce una porzione del volto maggiore rispetto a quella di Paul Newman. L'"oscurità" del personaggio e il suo carattere ambiguo vengono poi segnalati almeno in altre due occasioni: quando, a metà film, è seduta sul letto di Galvin e dialoga con lui, già steso sotto le lenzuola; e quando, una decina di minuti più tardi, il protagonista torna a casa certo della propria sconfitta e la trova ad aspettarlo. Qui, nell'establishing shot della scena, mentre Newman è su un lato dell'inquadratura e incorniciato dal vano di una porta, la Rampling (la cui figura occupa un terzo del quadro) non solo è in controluce ma anche di spalle, configurando così una chiara infrazione alle regole canoniche della messa in scena. Il senso dell'operazione è però chiaro, l'effetto di disarmonia e disforia giunge senz'altro allo spettatore. Un ultimo esempio di come l'illuminazione sia una componente essenziale della pellicola (e a questo punto non si può non citare il direttore della fotografia Andrzej Bartkowiak, per la terza volta al fianco di Lumet) è dato dalla scena in cui Galvin porta per la prima volta a casa sua Laura. Una sorta di totale dell'interno dell'appartamento ci permette di notare come siano due i locali illuminati: l'ingresso, sulla sinistra dell'inquadratura - la luce l'accende Galvin quando entra - e, sulla destra, la camera da letto, con la luce già accesa. Il collegamento tra le due stanze, e l'ironia sottesa, sono evidenti.

Ma ritorniamo ora all'inquadratura iniziale, per dire di come essa contenga il primo accenno all'ambiente spoglio di cui si diceva, dato non solo dagli esterni diurni, ma anche dagli interni, con il ruolo di particolare importanza giocato allora dall'ufficio del protagonista, grigio, disadorno, e spesso ripreso in modo da mettere in evidenza, nell'inquadratura, l'imponente arcata che sovrasta il panorama di cui si "gode" dalla finestra. L'effetto complessivo dell'alchimia tra sceneggiatura e regia è - complice la ricorrente scelta, in esterni, di campi larghi che colgono Galvin in una cornice urbana piuttosto deserta - un diffuso senso di solitudine. Approfondendo l'analisi, questa solitudine si ritrova declinata, soprattutto nella prima parte della pellicola, nei termini di un'oppressione, con il protagonista che appare spesso prigioniero del contesto. Lo si deve tanto alla grande performance di Newman (una scena su tutte, quella in cui è a colloquio con il vescovo: guardare come siede e stringe a sé la cartella) quanto alla regia di Lumet, che spesso inquadra la sua star in contre-plongée quando è in piedi, come nel caso, a metà film, del dialogo con cui Galvin informa il suo mentore, l'assistente Morrissey, della sparizione del teste-chiave. A queste scene si può contrapporre, dal punto di vista formale e di senso, quella dell'arringa finale, quando un'inquadratura di tre minuti abbondanti inizia sì in plongée, ma con un Newman finalmente "libero" che, tra le tante figure sedute, è l'unica in piedi.

A questo punto Newman/Galvin ha compiuto il suo percorso di riscatto personale, tanto che al disincanto iniziale (messo in risalto, con più evidenza che nell'inquadratura d'apertura, dalle scene successive in cui lo vediamo come "sciacallo" ai funerali) si sostituisce l'idea di quella giustizia che della sua arringa diviene il cardine. La sua vittoria non è però completa: ha vinto la causa, ha scoperto che il mondo - anche se solo nelle persone di dodici giurati - può essere migliore di quanto credesse, ma ha perso la donna amata. Spulciando in rete (2), si scopre come all'epoca Lumet avesse girato due finali e come quello poi scartato si concludesse semplicemente con l'uscita di Galvin dal tribunale, lasciando quindi leggermente più aperto il sub-plot facente capo alla relazione con Laura Fischer. La scelta operata poi in sede di montaggio, che ha quindi privilegiato un chiaro non-lieto fine per il rapporto amoroso, dà quindi il tocco finale ad una caratterizzazione del protagonista che a questo punto rimanda con una certa evidenza ad un ben preciso genere cinematografico: il noir. Paul Newman, come si è detto, passa dal disincanto alla riscossa morale. In più è un eroe che, come da copione, beve, fuma e ha il suo scheletro nell'armadio. Charlotte Rampling incarna una sorta di dark lady - e abbiamo visto come le scelte d'illuminazione concorrano a definirla -, sebbene in quest'ottica il suo ruolo risulti più sfumato rispetto ai canoni (di fatto sprona il protagonista nel suo percorso di cambiamento più che ostacolarlo). Il potere è corruttore, la città uno spazio ostile. Certo, nel decennio cinico per antonomasia e dominato dall'ideale del denaro non c'è spazio per il romanticismo di un Bogart; le incarnazioni cinematografiche del prototipo noir - quel Marlowe che nell'immaginario collettivo rimane appunto legato a Bogey - hanno già trovato le loro ultime, alte espressioni negli anni' 70 (prima con Elliott Gould e poi con Robert Mitchum), e sempre a quegli anni appartiene il Chinatown di Polanski. Ma se è vero che il segno dell'esaurimento di un genere è la sua parodia, ecco che si può notare come A proposito di omicidi… sia del 1978 e Il mistero del cadavere scomparso proprio del 1982, mentre gli anni '90 saranno quelli che vedranno il successo, prima in libreria e poi al cinema, del legal-thriller.

Sarà allora forse azzardato voler cercare una staffetta tra i due generi, ma, volessimo correre il rischio, Il verdetto, con la sua struttura ancora character driven ma applicata all'interno dell'aula di un tribunale, si candiderebbe autorevolmente come uno dei migliori esempi di passaggio del testimone. Altrimenti, rimanendo più prudenti, non si può negare di trovarsi comunque di fronte ad una rara e fortunata chimica tra scrittura, regia ed interpretazioni.

Note:
(1) cfr. David Mamet biography, http://www.filmmakers.com/artists/mamet/biography/index.htm
(2) cfr. Trivia for The Verdict, http://www.imdb.com/title/tt0084855/trivia

IL VERDETTO
(USA, 1982)
Regia
Sidney Lumet
Sceneggiatura
David Mamet
Montaggio
Peter C. Frank
Fotografia
Andrzej Bartkowiak
Musica
Johnny Mandel
Durata
129 min
 


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