Dopo il legal thriller Michael Clayton (2007), Tony Gilroy ha scelto di sondare un altro genere e di misurarsi con una spy story dalle venature romantiche. Come per il film precedente, che vedeva George Clooney nella parte di protagonista, Duplicity è reso riconoscibile dalla presenza di un cast stellare entro il quale spiccano Julia Roberts e Clive Owen.
Claire Stenwick (Roberts) e Ray Koval (Owen) si occupano di spionaggio industriale. Inizialmente assoldati da due aziende concorrenti, si trovano a lavorare insieme e a progettare una truffa nei confronti della multinazionale che li stipendia. Il loro incontro/scontro avviene a Dubai, cinque anni prima del livello temporale in cui si svolgono i fatti. Gilroy fa da subito comprendere allo spettatore che ogni aspetto della storia narrata sarà focalizzato sui due protagonisti, sull’esibizione costante delle star. Gli attori vengono presentati attraverso un dialogo serrato e la performance dei due divi è concentrata quasi di continuo nel colloquio sincopato tra loro, che prevede una tipologia di battute dal contenuto ciclico: discorrere del precario tasso di fiducia che Claire e Ray si attribuiscono vicendevolmente.
Amarsi significa consegnarsi in modo trasparente all’altro, ma quanto possono essere sincere due spie per professione? Questa sembra essere la questione morale di Duplicity, che verrà risolta in un happy end dai toni agrodolci. Il termine “duplicity” (doppiezza, duplicità, finzione) viene indagato e rappresentato da Gilroy per mezzo di una precisa e meccanica scelta di regia e sceneggiatura. Ciò appare quasi paradossale in un film che vuol richiamare la doppiezza, dunque la moltiplicazione dei punti di vista e la molteplicità dei livelli di significato. Il meccanismo utilizzato dal regista per inscenare la duplicità connaturata ai personaggi è, infatti, caratterizzato da una scrittura e da scelte registiche piuttosto cadenzate e spesso prevedibili. La doppiezza e la finzione sono rese in modo lineare, senza sfumature. L’uso insistito del ricorso allo split screen, che duplica, triplica e quadruplica l’immagine e gli avvenimenti per condurre ai flashback che raccontano lo sviluppo della relazione amorosa tra Claire e Owen tende a diventare ripetitivo ai fini della comprensione della storia. L’elevato numero di location utilizzate (Dubai, New York, Roma, Londra, Miami, Cleveland, Zurigo) appare poi come un semplice sfoggio di luoghi fine a se stesso, pura ostentazione iconica ed esteriore di un’internazionalità, che, invece di arricchire la narrazione, diviene un ostacolo al fluire degli eventi.
Gilroy satura la mente dello spettatore con eccessive informazioni, creando, di conseguenza, una perdita notevole di ritmo. I codici della spy story e della commedia romantica si sovrappongono e i personaggi si trovano imbrigliati in una sceneggiatura che fatica ad essere equilibrata. Gilroy, sceneggiatore da quasi quindici anni (The Bourne Identity, Armageddon...), sembra non riuscire a trovare la giusta armonia tra lo script e la regia, dando vita ad un effetto di ridondanza che si palesa nel rapporto tra immagini e storia. In Duplicity, insomma, la sola presenza di star affermate non sembra proprio essere sufficiente per trovare un equilibrio globale.
TITOLO ORIGINALE: Duplicity; REGIA: Tony Gilroy; SCENEGGIATURA: Tony Gilroy; FOTOGRAFIA: Robert Elswit; MONTAGGIO: John Gilroy; MUSICA: James Newton Howard; PRODUZIONE: Germania/USA; ANNO: 2009; DURATA: 125 min.
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