American Life PDF 
Matteo Marelli   

La distribuzione italiana si muove seguendo logiche di difficile decifrazione. Questo dato di fatto non è prevedibilmente riscontrabile soltanto per i lavori dei cosiddetti registi di nicchia, ma tocca, in maniera incomprensibile, anche i progetti firmati dai più blasonati autori mainstream. È il caso dell’ultima regia di Sam Mendes, arrivata nelle nostre sale con un anno e mezzo di ritardo  (nonostante il regista goda di un credito più che ampio di pubblico e critica), distribuita con un titolo oltremodo banale, foriero di confusioni semantiche. All’originale Away We Go, capace d’esplicitare molto meglio il senso della pellicola, è stato infatti preferito American Life, scelta chiaramente finalizzata a richiamare alla mente dello spettatore American Beauty, il maggior successo del regista. Non che tra le due pellicole non ci sia una continuità tematica. Entrambe sono tasselli della medesima riflessione condotta sulla borghesia americana, sulle sue contraddizioni, su quel suo costante vivere nella rappresentazione di sé. Entrambe  fanno dell’inquietudine e dello smarrimento della famiglia mononucleare un modello paradigmatico di crisi di un intero sistema. E in entrambe Mendes, lavorando sulle disfunzioni dell’unità famigliare, mette esplicitamente alla berlina il tanto amato/odiato american way of life.

Tuttavia, se proprio bisogna rintracciare dei gradi di parentela tra quest’ultimo lavoro e le precedenti regie, allora questi si fanno molto più forti con Revolutionary Road. Tutti e due i film ci mostrano infatti una coppia sposata volta a perseguire la ricerca di una felicità differente da quella che impongono modelli sociali ormai consolidati. I quattro protagonisti rivendicano la propria diversità di fronte ad un contesto sociale che imprigiona gli individui in una selva cristallizzata di convenzioni e condizionamenti. Hanno necessità di sfuggire all'ipocrisia della società, cercando un posto nuovo, una casa dove poter vivere compiutamente, e a modo loro, la loro vita e i loro sogni. Seppur differente, per entrambe le coppie è determinante il confronto con il quadro storico con cui devono confrontarsi e dal quale non si sentono rappresentate. Per Frank e April Wheeler di Revolutionary Road è l’America perbenista, conformista e conservatrice degli anni Cinquanta. Loro sono persone differenti, almeno nelle aspirazioni, da chi li circonda: sensibili, intelligenti, intimamente desiderose di condurre una vita che si svolga fuori dai rigidi schemi borghesi e da quel “vuoto disperato” del confortevole mondo suburbano dal quale si sforzano di staccarsi. Burt e Verona di American Life abitano invece il tempo presente, un'America piena di incertezze, sottomessa ad un regime di insicurezza, di precarietà che esclude ogni tipo di progettualità legata ad un percorso, ad una crescita, e che li costringe, proprio per questo, a vivere come impenitenti adolescenti. Sia per gli uni che per gli altri la comune condizione di insoddisfazione diventa in tal senso un fatto politico, non un’accidentale condizione personale. Frank e April vivono una condizione di benessere diffuso, hanno un alto tenore di vita, ma nonostante l’agiatezza di cui si avvolgono non riescono a non temere l’agguato della noia di vivere. La coltre di ricchezza non attutisce l’infrangersi dei loro sogni al contatto con la realtà sociale del mondo “adulto”. Avvertono l’avanzare di un stile di vita, di un modello sociale spersonalizzante, che vuole l'apparire e l'avere più forti del sentire e dell'essere. L’opportunità di abbandonare questo tipo di vita si apre con la decisione dei coniugi di cambiare continente e andare a vivere  a Parigi. Ma il presentarsi della grande offerta di lavoro porta a galla la loro temerarietà, di Frank soprattutto, che li costringe a rinunciare al viaggio mettendo irrimediabilmente fine al sogno di evadere dal conformismo.

Anche per Burt e Verona l’andarsene rappresenta la sola occasione di riscatto, e a differenza della coppia di Revolutionary Road non indugiano a farlo. Ad avvantaggiarli è proprio la loro condizione di svantaggio. L’improvvisa gravidanza e l’indigenza che li circonda, destinata probabilmente ad aggravarsi qualora decidessero di continuare a vivere lì dove stanno, senza più l’aiuto materiale dei genitori di lui, decisi a trasferirsi in Europa, li convince ad affrontare di petto la loro vita. Decidono di far di necessità virtù. La precarietà lavorativa di entrambi, che rende di conseguenza precaria la loro stessa esistenza, invece di frenarli li motiva a trovare un posto migliore dove crescere. Burt e Verona simboleggiano una generazione priva di riferimenti forti e lasciata sola, ma anche un Paese disorientato, straniero a se stesso. Convinti di trovare, strada facendo, una famiglia che possa fungere da esempio e modello, i due incrociano soltanto un’umanità succube, vittima della rappresentazione di sé. Paradossalmente i due protagonisti scopriranno esserci più maturità nelle loro inquietudini e incertezze che in tutta quelle persone convinte di aver scelto una loro strada. Per Burt e Verona il bimbo che si portano appresso in giro per gli States non è altro che la  base su cui costruire la propria ricerca di responsabilità esistenziale. Anche in Revolutionary Road è presente il tema della gravidanza, ma come per tutti gli altri elementi di continuità sin qui rintracciati, anche questo è risolto lungo traiettorie di sviluppo diametralmente opposte. Per April la nascita del figlio rappresenta infatti la frustrazione di ogni ambizione personale e l’aborto la sola via di fuga.

Mendes, insomma, sembra voler costruire American Life sulle macerie di Revolutionary Road. Le crepe di un sistema, divorato negli intestini dalla tenia cannibale dell’ipocrisia, hanno  investito il privato, la coppia e portato all’implacabile disfacimento della famiglia. È da questo panorama da day-after che riparte la coppia di reduci composta da Burt e Verona. Appare come un’operazione programmatica, e proprio per questo discutibile, quella condotta da Sam Mendes per la realizzazione di American Life, che si presenta in tutto e per tutto come il rovescio della medaglia del suo film precedente. Se Revolutionary Road era una sorta di requiem per il Sogno Americano, questo torna a dargli nuova linfa. Anche da un punto di vista realizzativo, mentre la pellicola del 2008  si presentava come un true drama dal retrogusto melò con aspirazioni da Oscar, dal complesso compositivo dominato dalle tonalità desaturate della fotografia virata in ocra e dal calligrafismo tipico del cinema anni  Cinquanta, ulteriormente arricchito dai divi Leonardo Di Caprio e Kate Winslet, American Life ricalca gli stereotipi narrativi, psicologici, scenografici del cinema finto-indipendente, dei film “alla Sundance”, con tanta macchina a mano e attori televisivi semi sconosciuti.

Il peggior difetto di American Life sta dunque nel diffuso approssimatismo, sia nello sviluppo drammaturgico che nella caratterizzazione dei personaggi. La struttura è quella di uno schematico percorso a tappe, dove si incontrano diversi spaccati di vita, tutti egualmente disfunzionali e squilibrati. Su una struttura così prevedibile il regista innesta ritratti impietosi di famiglie al “limite”, spesso ostaggi di cliché, ambizioni borghesi e velleità di trasgressione. Tutti, inevitabilmente, vittime di un’endemica ipocrisia. I personaggi rappresentati sono tutti dei casi limite, oscillanti tra il grottesco e l'assurdo, mai verosimili e men che meno rappresentativi di qualcosa. Il film rischia continuamente di perdersi in una serie di figure fin troppo sopra le righe, sebbene questa eccessiva vena caricaturale venga in parte bilanciata dai due protagonisti, i cui caratteri appaiono sicuramente meglio approfonditi, anche se non del tutto credibili.

 


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