L'eterno ritorno di Malick: The Tree of Life PDF 
Amon Rapp   

Non stupisce che l’ultimo lavoro di Malick abbia diviso nettamente il pubblico. Opera di meravigliosa complessità e ambizione, The Tree of Life è un enigma che non si lascia mai completamente svelare. Non fornisce risposte chiare ed univoche a domande precise e puntuali. Nello stesso tempo in cui sembra mostrarsi alla luce del sole, ecco che si ritrae nascondendosi nell’ombra. Impossibile affrontarne la visione se non ci si dispone, durante e dopo la fruizione, ad un radicale mutamento di sguardo e ad una profonda trasformazione del proprio pensare. Perché il difficile da cogliersi qui non è solamente il contenuto dell’opera, così carico di simbolismi, ma il suo carattere stesso di opera. Non ci si può infatti ridurre ad una spiegazione di comodo in cui ci si accontenta di dire che vi vengono esposti in forma cinematografica pensieri e riflessioni filosofiche. Dal momento che qui viene messo in questione il significato stesso del filmare e del pensare, non più definibili secondo le logiche e le rappresentazioni usuali, poiché riformulati in modo radicalmente nuovo.

Da queste premesse sembra superfluo aggiungere che qualsiasi tentativo di esegesi di un’opera così misteriosa, alla cui visione non ci possiamo non trovare impreparati, non può che rivelarsi parziale ed esteriore. Inutile cercare di districare in modo esaustivo le sovrapposizioni di senso, le antitesi concettuali e le ambiguità figurative che Malick mette in scena in modo mai visto prima. Si può solo sperare di fornire alcuni spunti di riflessione, nuove domande da rivolgere ad un’opera che continuerà per molto tempo ad essere fonte inesauribile di significati ulteriori. The Tree of Life si apre su una tragedia compiuta, la perdita irreparabile di un figlio e l’insostenibilità di un dolore che appare inspiegabile. Un evento così umano, che tocca nel profondo l’intimità di un nucleo familiare, viene però immediatamente ricondotto alla genesi del cosmo, alla nascita della vita nell’universo e, nello stesso tempo, alla perpetua ed ineliminabile presenza della morte nella Natura. A partire da questo lungo inizio, il film di Malick si avventura nella ricognizione della vita di provincia di una famiglia media americana degli anni Cinquanta, posando il suo occhio sulle tensioni pulsionali che la pervadono e sugli irrisolvibili contrasti che ne segnano l’esistenza quotidiana. Protagonista principale del racconto è il giovanissimo Jack, primo di tre fratelli, costantemente diviso tra un padre autoritario, specchio di un modello che vede nella forza l’unico strumento per farsi strada nella vita, e una madre tanto candida e innocente quanto incapace di contrastare i conflitti che si producono all’interno del focolare domestico. La sua iniziazione alla vita avverrà con la scoperta dell’inesorabilità delle leggi della Natura e del potere che il male può esercitare sull’animo dell’uomo.

Laureatosi ad Harvard sotto la guida di Stanley Cavell, e per breve tempo insegnante di filosofia al MIT, Malick, nel corso dei suoi studi, subì il fascino del pensiero heideggeriano, al punto da recarsi in Germania all’inizio degli anni Sessanta, per riuscire ad incontrare il famoso filosofo tedesco. È infatti al pensatore dell’Essere che gli interpreti di Malick hanno ricondotto buona parte del suo cinema, ritrovando in esso numerosi temi ascrivibili alla sua filosofia: la finitudine dell’uomo, l’indifferenza della Natura, la necessità di un’esistenza autentica. Cavell stesso aveva notato come nella messa in scena de I giorni del cielo Malick lasciasse trasparire una visione metafisica del mondo, facendo riverberare la relazione che lega gli enti all’Essere; ma è soprattutto ne La sottile linea rossa che studiosi successivi vedranno il pieno realizzarsi di un cinema essenzialmente connesso con la riflessione di Heidegger, incentrato su figure gettate nell’esistenza a costante confronto col pensiero della morte. La riflessione che scaturisce da The Tree of Life, tuttavia, è di tal natura che appare quanto mai arduo il tentativo di radicarla in un unico territorio del pensiero. Sotto i nostri occhi si concretizza piuttosto un pensare visivo originale, che riprende e fa propri i grandi problemi della storia della filosofia occidentale. Heidegger continua a rimane un riferimento importante, ma ad esso si affiancano le questioni fondamentali affrontate dalla tradizione filosofica cristiana, da Agostino a Pascal, da Kierkegaard a Marcel: la natura insondabile della giustizia divina, il significato del male nell’esistenza umana, la speranza della liberazione dalla morte, il salto verso una fede incondizionata. Non solo. I continui rapporti che il film istituisce a livello visivo tra microcosmo e macrocosmo, non possono non far pensare all’ermetismo rinascimentale, così come la contrapposizione tra l’infinità dell’universo e la finitudine dell’uomo richiama alla mente il pensiero di Giordano Bruno e il problema di un’etica del finito in un cosmo che invece non conosce fine alcuna.

Da queste premesse sarebbe tuttavia errato dedurre che l’ultimo lavoro di Terrence Malick non sia altro che un freddo quanto didascalico saggio cosmologico e esistenziale, o ancor peggio una riflessione esteriore su tematiche essenziali, che vuole innestarsi in modo parassitario su una narrazione di tipo convenzionale. The Tree of Life in realtà fonde pensiero e visione in un’unità inestricabile, mettendo in discussione i tradizionali rapporti che da sempre li hanno regolati, arrivando a rimettere in gioco i tradizionali confini che delimitano i campi del cinema e della filosofia. Per arrivare a questo risultato il regista sembra affidarsi a due distinti modelli letterari, alternandoli costantemente: il De Rerum Natura di Lucrezio e il Così parlò Zarathustra di Nietzsche. Come il primo, il film di Malick si affida ad un poema in versi per dare vita ad una rappresentazione della storia dell’universo e per dare corpo ad un’immagine oggettiva della leggi della Natura. Come il secondo, disdegna invece un’esposizione deduttiva di concetti, ma si concentra nella creazione di parabole e figure, alla cui voce è dato il compito di annunciare, più che di dimostrare. Questa oscillazione costante tra un piano oggettivo ed uno soggettivo del discorso, tra un livello cosmico ed uno individuale della narrazione, è il fulcro fondamentale della complessità del film. Come se non bastasse, ad essa si intrecciano i due problemi centrali che l’opera di Malick sembra voler indagare nel corso del suo procedere: da un lato l’inflessibilità della Natura, dall’altro il mistero di Dio. Assistiamo dunque a un quadruplice discorso, che mette in campo Dio e Natura come opposte regole di funzionamento del mondo e, contemporaneamente, come principi antitetici dell’agire umano.

La Natura tra cosmo e azione individuale
In The Tree of Life la Natura si presenta innanzitutto come legge immanente del mondo. In una interminabile alternanza di creazione e distruzione, essa è fonte di incessanti trasformazioni, indifferente alle alterne vicende delle esistenze che la abitano. Il caso la governa fin dal principio. Il concetto di Giustizia le è totalmente estraneo. Per illustrarne il procedere, dalla nascita dell’universo alla comparsa della vita sulla terra, Malick si affida ad una sinfonia visiva di sconcertante bellezza, a un succedersi ipnotico di immagini, che, rispecchiandosi le une nelle altre, instaurano una profonda connessione tra colture microscopiche e sistemi interstellari, moltiplicando indefinitamente gli spazi e i mondi che li occupano. Esplosioni nebulari ai margini del cosmo, evoluzioni magmatiche su stelle lontane, proliferazioni batteriche in liquidi primordiali si succedono apparentemente senza scopo. La legge della Natura non sembra risparmiare nessuno. Nemmeno ad un atto di pietas in un mondo ancestrale segue retribuzione alcuna. Ad esso consegue unicamente l’evento che ne porterà all’estinzione gli abitanti. In questo universo sconfinato governato da un cieco destino, gli uomini si ritrovano a vivere e ad agire, domandandosi quale senso si celi in tale incessante procedere, e quali norme siano in grado di guidare le loro azioni nel mondo.  Essi sentono il peso di un insieme di leggi che non ammettono eccezioni e non fanno distinzioni di sorta. Ogni cosa può accadere a chiunque: chiunque può ritrovarsi stritolato tra le ruote del caso. A niente valgono le buone azioni e il rispetto di una retta condotta di vita. Niente di quello che l’uomo ha donato deve per qualche ragione venirgli restituito. La morte e la sofferenza possono colpire tutti indifferentemente. È in questo quadro allora che la Natura può diventare una via di condotta per l’agire umano. Perché anche l’uomo può incamminarsi sulla sua via. Una via totalmente terrena, che guarda al mondo, lo osserva, e ne ricava principi guida e norme di comportamento. È la strada che il padre di Jack (Brad Pitt) ha seguito in toto. E non è una via facile. Lo si nota sul suo volto indurito, scolpito dalle disillusioni e dalle false attese di una vita. Vedendo nel mondo una mera lotta per la sopravvivenza, egli non può che affidarsi alla forza, alla volontà di riuscita, alla ragione strumentale per andare avanti. Ma è una via che spesso è costellata di rovine, frutto del crollo delle proprie illusioni, speranze e aspirazioni. Proprio perché la Natura è governata dal caso, nessuno sforzo può pensare di essere necessariamente premiato. Brad Pitt, straordinario nel dipingere un ritratto di così vasta umanità, riesce ad esprimere il dramma di un individuo divorato dai rimpianti e dai sensi di colpa, incapace di esprimere le proprie emozioni, cristallizzatesi nella corazza che gli ha permesso di farsi strada nel mondo. La sua è la via di chi si sente assediato, di chi deve continuare a lottare. Per alcuni è l’unica via possibile. È la via che anche Jack deciderà di seguire.

Dio tra fede e senso della Storia
Se la Natura regna incontrastata sul trono del mondo, per l’agire dell’uomo si rende disponibile una via completamente diversa. È la via della Grazia, la via di chi si affida totalmente a Dio. La Grazia sembra garantire serenità maggiore a chi le si consacra. Amare e donare permettono agli uomini di notare lo splendore degli enti che li circondano, di vivere a fondo il tempo che è a loro concesso, senza disperdersi nella vanità degli scopi terreni. Ma a ben guardare anche questa via è tutt’altro che semplice e lineare. In un mondo regolato unicamente dalla Natura, nel quale Dio si rivela completamente assente, rimanere sulla via della Grazia è forse l’impresa più ardua. È il Male ad attrarre gli animi umani e ad allontanarli dalla strada che può condurli al divino. Un male oggettivo, derivante dal semplice procedere delle leggi naturali, che inevitabilmente producono sofferenza, morte e distruzione. E un male dell’uomo, che, guardando al mondo, ne spinge fino in fondo le logiche, tramutandole in piacere della crudeltà e della sopraffazione. Ma la presenza del male non è per sua stessa natura enigmatica? Se Dio ne permette l’esistenza non è perciò egli stesso malvagio? E se il destino si fa beffe dell’operare dell’uomo per quale motivo è sbagliato che l’uomo, tramite il male, si opponga al proprio destino? È in Jack che queste domande si fanno strada senza sosta. Jack, che sceglie consapevolmente il male e si lascia andare al suo fascino seduttivo. Il suo percorso di ingresso nella vita adulta, il suo processo di allontanamento dall’educazione cristiana che gli è stata impartita, è segnato da lacerazioni e conflitti che ne frantumano l’animo, un animo costantemente conteso dalla figura del padre e da quella della madre, fonti di pulsioni primordiali contrastanti, tra amore ed odio, rifiuto ed imitazione. Ma se Jack si incammina liberamente sul sentiero del male, sua madre, votata invece alla grazia divina, non si trova per questo al riparo da esso. La sua debolezza la lascia in balia degli istinti che le si scatenano intorno. Niente può fare per proteggere i suoi affetti, per rimediare al declino inarrestabile di un matrimonio minato da dinamiche autodistruttive ed evitare l’allontanamento di un figlio, che sempre più sembra denigrare i suoi insegnamenti. Nulla può proteggerla dal dolore e dalla morte. E anche nei momenti in cui la serenità e la gioia sembrano farle visita, la forma del racconto che mescola incessantemente i piani temporali, e fin dall’inizio ci mostra la tragedia di una vita compiuta, ci ricorda che su ogni suo gesto pende l’ombra della disperazione futura. In questo quadro che apre ad interrogativi ultimi sul rapporto tra Dio e gli uomini, Malick trova nell’escatologica cristiana l’unica risposta in grado di dare un senso alla Storia e all’agire dell’uomo. La fine dei tempi giustifica il sacrificio del proprio essere e dei propri cari al mistero di Dio. La vita eterna e la resurrezione dei morti ristabiliscono il divino come alfa e omega dell’universo. Perché in un cosmo che non manifesta in alcun modo la sua presenza, Egli presiede tuttavia in maniera insondabile al destino del tutto. Per questo, la fede non può trovare supporto in ricognizioni razionali del mondo, ma deve essere scelta tramite un salto incondizionato che non cerca giustificazioni. La retribuzione arriverà soltanto alla fine. E le leggi di Natura si riveleranno una semplice parentesi nell’eternità del regno di Dio.

Conclusioni: il trionfo della forma
Viene da chiedersi, giungendo al termine, in che cosa consista la vera grandezza di The Tree of Life, posto che le soluzioni dei temi in esso elaborati, che si rifanno ai grandi problemi della teodicea e della metafisica occidentale, sembrano sfociare in una concezione fideistica del mondo e dell’esistenza, tutto sommato non molto distante da quella tradizionalmente elaborata dal pensiero cristiano. La risposta non può che venire dalla forma, come per ogni grande opera d’arte. Perché, lo ricordiamo, non di saggio filosofico stiamo parlando. Ma di cinema. Ed è allora alle immagini che dobbiamo rivolgerci in primis per cercare di vedere fino in fondo il senso ultimo del lavoro di Malick. In esse il mondo si trasforma in qualcosa di diverso dalla semplice accumulazione di oggetti ed esseri viventi. In un continuo fluttuare della macchina da presa, che con rapidi movimenti si insinua in ambienti umani e naturali, gli animali, le piante e gli elementi stessi brillano di nuova luce. Ripreso dal suo sguardo, il mondo si trasfigura in un’entità metafisica raggiante e poderosa: una visione che dona una rinnovata pienezza agli enti e ne fa presagire la fonte d’esistenza, rendendoli partecipi del mistero dell’Essere. È in questo film allora, più che in ogni altro suo precedente lavoro, che il pensiero di Heidegger si fa visibile. E poco importa se nell’esito finale, più che ad “un Dio”, come auspicato dal filosofo tedesco, ci si affidi ancora “al Dio” della tradizione biblica. Perché la straordinarietà del film di Malick risiede nell’unità di poesia e pensiero che mette in scena, attraverso una forma che si avvicina ai limiti della sperimentazione pura, fondendo in un’unica entità concetto ed immagine. Se Heidegger interrogava le poesie di Rilke e di Hölderlin, affinché col suo domandare potesse emergere la voce dell’Essere, The Tree of Life ridefinisce i modi in cui si può realizzare l’incontro tra arte e filosofia, producendo domande e generando risposte in un intreccio impossibile da verbalizzare. Il risultato è uno sguardo estatico sul cosmo intero, in cui la bellezza della Natura predispone l’uomo ad abbandonarsi ad essa, nonostante la sua crudeltà e la sua indifferenza, o, meglio ancora, proprio in ragione di esse. Perché come ricorda Emanuele Severino, in The Tree of Life ci troviamo dalle stesse parti del tragico. Allo stesso modo in cui, nel teatro greco, il mito si trasmutava in un’immagine salvifica in grado di sollevare gli spettatori al di sopra della morte, qui la materia, la Natura, e tutte le umane vicende si riplasmano in immagini che invitano all’oblio dell’infelicità dell’esistenza. Piace allora concludere con un pensiero di Giacomo Leopardi, che già Severino aveva scelto per aprire la sua mirabile analisi dell’ultimo capolavoro di Malick: nelle “opere di genio”, dice Leopardi, “l’anima riceve vita (se non altro passeggiera) dalla stessa forza con cui sente la morte perpetua delle cose, e sua propria.”

 


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