American Beauty PDF 
Fabio Fulfaro   

"Potrei essere piuttosto incazzato per quello che mi è successo, ma è difficile restare arrabbiati quando c'è tanta bellezza nel mondo. A volte è come se la vedessi tutta insieme, ed è troppa. Il cuore mi si riempie come un palloncino che sta per scoppiare e poi mi ricordo di rilassarmi e smetto di cercare di tenermela stretta. E dopo scorre attraverso me come pioggia e io non posso provare che gratitudine per ogni singolo momento della mia piccola, stupida vita. Non avete idea di cosa sto parlando, ne sono sicuro, ma non preoccupatevi... Un giorno, l'avrete... ".

Al momento della sua uscita, nel 1999, American Beauty ebbe uno straordinario successo di critica e di pubblico, e l'onda lunga di questa acclamazione portò il film a vincere ben cinque Academy Awards (miglior film, miglior regia, migliore sceneggiatura originale, migliore fotografia e miglior attore protagonista). Se si pensa che si trattava del debutto di un regista inglese fino ad allora noto per le sue importanti trasposizioni teatrali (Cabaret, The Blue Moon) e di uno sceneggiatore americano, Alan Ball, fino ad allora impegnato in serie televisive, ci si rende conto della particolarità dell'evento. Attualmente è in corso una rivisitazione critica e un ridimensionamento dell'importanza di questo film nella cinematografia di fine millennio, e la maggior parte delle accuse riguarda la falsità di un'operazione che sembra volere essere sovversiva e rivoluzionaria, ma in realtà è essenzialmente “cerchio-bottista”, strizzando contemporaneamente l'occhio al pubblico e al critico di bocca buona, sotto la sapiente ala protettiva della macchina da guerra Dreamworks di Steven Spielberg. Pur condividendo alcune perplessità su una operazione in certi punti ambigua, e rivedendo per la seconda volta il film dopo un intervallo di tempo di dieci anni, non si possono fare a meno di notare alcuni spunti tematici interessanti e certe premonizioni cinico-filosofiche che caratterizzano l'ultima produzione americana d'autore (il trittico Il Petroliere, Onora il padre e la madre, Non è un paese per vecchi).

Sgombriamo il campo dall'equivoco di fondo: American Beauty non è una critica sociologica all' american way of life, né una rappresentazione realistica della middle class americana (rigorosamente di pelle bianca). O meglio, vuole sembrare questo ma non lo è. Seguendo il consiglio della frase di lancio del film (Look closer) ci accorgiamo che, guardando meglio da vicino la bellissima impalcatura costruita da Sam Mendes e Alan Ball sulle spalle di attori di prim'ordine (le prove di Kevin Spacey e di Annette Bening sono strepitose), il discorso da politico/sociologico si fa spirituale/esistenziale, con richiami al Buddismo e al Giordano Bruno de L'ombra delle idee. I personaggi rappresentati sembrano un po' tutti dei casi limite, certo verosimili ma non rappresentativi di una classe sociale. La famiglia Burnham sembra uscire da un film di Wes Anderson, ma senza la leggerezza dell'autore dei The Royal Tenenbaum: Lester il quarantenne fallito che si masturba sotto la doccia e insidia la compagna di classe della figlia, la moglie isterica Carolyn che passa il tempo a schiaffeggiarsi per punirsi dei propri insuccessi ed è posseduta dalle cose, la figlia Jane perennemente imbronciata, insicura del proprio corpo, con un rapporto totalmente assente con i genitori nevrotici. Per non parlare di altri casi patologici come il vicino di casa Colonnello dei Marines Fitts, omosessuale represso, la ninfetta Angela tutta turpiloquio ma poca sostanza, il novello James Stewart Richy Fitts che spia la sua vicina di casa Jane cercando di carpirne i momenti di intimità, il re delle vendite di immobili Buddy Kane impomatato e vanaglorioso. Insomma un campionario da brivido, il cui squallore morale contrasta inevitabilmente con la perfetta geometria delle abitazioni, la cura maniacale per i dettagli (guardate la rosa rossa amorevolmente coccolata da Carolyn), l'ostentazione dei simboli del successo (case, macchine, high tech, vestiario). Il discorso però non è riferibile solo alla borghesia americana, dimostrata con casi tra il grottesco e l'assurdo, ma investe l'umanità in generale con la sua incapacità a cogliere la bellezza che sta dentro le cose, che si accontenta delle immagini di una realtà fittizia tralasciando la fonte di quelle immagini, l'essenza. Un'umanità che si scanna per un divano di seta italiana e che poi si ritrova ad abbracciare giacche e camicie di un defunto, unica patetica reliquia di un amore che non c'è più.

Mendes è molto bravo nell'inquadrare gli interni in maniera simmetrica e falsamente asettica: soprattutto nelle scene della famiglia a cena o quelle davanti al televisore, la disposizione ordinata degli oggetti e delle figure umane contrasta magnificamente con la tempesta di rancori per troppo tempo trattenuti e con l'incapacità a comunicare su un livello meno superficiale. Per tutto il film osserviamo questa terribile impotenza a mutare il proprio destino, questo continuo osservare e osservarsi allo specchio o davanti un obiettivo senza capirci nulla, questa incapacità a passare dal sensibile all'intellegibile: solo la morte sembra essere il momento catartico, la realizzazione della stupidità delle nostre piccole vita di fronte alla bellezza nascosta del mondo. Viene in mente questo passo del filosofo Giordano Bruno: “È necessario che colui che vede la bellezza dei corpi non corra ad essi, ma sappia che essi sono immagini, tracce, ombre e fugga verso quella bellezza di cui essi sono immagini...”. Insomma quello che manca è una second sight che ci consenta di vedere le cose da un punto di vista trascendente, che ci faccia vedere dietro il sacchetto di plastica sballottato dal vento, una danza simbolica comandata da un motore immobile e invisibile.

Dicevamo della grande prova sia degli attori protagonisti (Lester e Carolyn) che dei ragazzi (Angela e Jane su tutti). Kevin Spacey sembra davvero a suo agio nel tratteggiare, prima con piccoli gesti nervosi e poi con violenti scoppi d'ira, la figura di un uomo il cui sorriso sardonico nasconde il disperato bisogno di amare e di essere accettato, ritornando nei luoghi perduti delle canzoni anni Settanta e nell'anestesia dei cannabinoidi. La lolita Angela, ricoperta dai petali rossi dell'American Beauty, è l'occasione per abbandonare il boulevard of broken dreams ed illudersi di essere ancora vivo, accettando le proprie debolezze. Anche il personaggio di Annette Bening, della donna in carriera, competitiva e ambiziosa, pienamente integrata nell'edonismo consumistico che non le permette di vedere la sofferenza della figlia e il risentimento del marito, si rivela fragile e indifeso nel momento in cui, crollate tutte le sovrastrutture estetiche e le difese morali, si trova di fronte alla verità di un vuoto interiore devastante. Il confronto tra le due adolescenti Jane e Angela risulta ben bilanciato proprio nel momento in cui viene messo in evidenza il rapporto conflittuale di repulsione/emulazione: Jane, pur disprezzando le pose e i comportamenti dell'amica, ne è segretamente attratta. La vantata collezione di amanti rappresenta la possibilità di entrare nel mondo degli adulti con un ruolo da protagonista, fuggendo dai sensi di colpa inculcati da una madre isterica e ribaltando la debole figura paterna con il dominio sessuale. La prova degli attori viene esaltata dalla fotografia di una vecchia volpe come Conrad L. Hall (Il maratoneta, Butch Cassidy), che esalta il colore rosso in contrasto con il bianco (si veda la scena dell'omicidio di Lester), e dalla musica di Thomas Newman, ormai entrata nel mito, che commenta in maniera sagace i momenti esistenziali e filosofici del film con qualche evidente reminescenza della Thin Red Line di Malick.

Sam Mendes dice di avere visto molto cinema classico americano, di essersi ispirato a Sunset Boulevard (l'incipit ne è un omaggio evidente), a L'appartamento, a Gente comune di Redford. In realtà, pur partendo da questa base classica, il tono del film scivola più sul surreale (gli inserti onirici con i petali rosso sangue dell'American Beauty) e sul metafisico (tutti i discorsi di Richy Fitts sulla bellezza del mondo), portandolo a metà strada tra il postmodernismo dei fratelli Coen (appena fresco il successo di The Big Lebowski) e i lirismi panteistici di Terrence Malick. Come in Blue Velvet di David Lynch, sotto lo splendido manto erboso brulicano miliardi di voraci insetti, e dentro i prefabbricati della Silicon Valley (ma in realtà sono i luoghi dove si era girato The Truman Show l'anno precedente) si agitano disperatamente e disordinatamente come formiche impazzite migliaia di vite senza una direzione, senza punti di riferimento, disperse. Oltre alla costruzione delle scene degli interni, tipicamente teatrale, Sam Mendes mostra una particolare perizia nel gioco guardare/essere guardati tanto caro ad Alfred Hitchcock e al suo allievo post avanguardista Brian De Palma. Una scena emblematica è quella delle riprese clandestine di Richy (dalla finestra di fronte), che evitano accuratamente l'esibizione egocentrica di Angela e si concentrano sull'immagine riflessa allo specchio di Jane che, sentendosi osservata, abbozza uno dei pochi sorrisi nel film. Questo momento di verità sembra dare ragione al giovane cineamatore: la bellezza è nascosta dietro la segnatura delle cose visibili e sta a noi riuscire a tirarla fuori.

Il film zoppica vistosamente nella rappresentazione dell'omosessualità: si passa dalla coppia modello (un avvocato fiscale e un anestesista) che porta i regali ai nuovi vicini di casa, all'omosessuale represso che trasforma in violenza ogni suo tentativo di comunicazione. Direi che sono due opposti talmente lontani da non permettere alcuna identificazione, ma alimentano i soliti luoghi comuni sulla tipologia passive/aggressive che può sfociare in improvvisi moti di violenza non controllabile (le botte da orbi del colonnello Fitts al figlio, l'assurdo colpo di pistola alle spalle dell'ignaro Lester vittima di un fraintendimento dello sguardo). La sceneggiatura è invece abile nel descrivere con grande sensibilità il disagio adolescenziale e il particolare muro contro muro nel rapporto genitori e figli, pieno di segreti e colpe tenute nascoste. Jane è in fuga dalla madre nevrotica e dal padre “schiappa”, il suo ostruzionismo comportamentale e verbale (che alla fine suscita schiaffi e urla) è un tentativo di riconquistare una stima di sé andata irrimediabilmente perduta nel confronto con i suoi coetanei e con gli adulti. Perennemente imbronciata, invidiosa dell'amica Angela, sembra essere in perenne credito con il mondo circostante. L'errata valutazione del proprio Io ha il corrispettivo in quella necessità ossessiva di mutare il proprio corpo (l'operazione per aumentare il seno) come se si volesse essere assimilabili ad un'immagine che non ha alcun corrispettivo con quella reale.

Lasciate perdere Tempesta di ghiaccio, Happiness, Nella società degli uomini o altri riferimenti cinematografici più o meno colti. Qui siamo più dalle parti di The Truman Show di Peter Weir e di Un giorno di ordinaria follia di Joel Schumacher. Lester prova a ribellarsi ad una sorta di prigione che gli è stata costruita intorno proprio nel momento in cui vede riflessi i propri errori nelle ossessioni consumistiche della moglie e nei silenzi ostinati e stizziti della figlia. Quel piatto lanciato con forza contro il quadro appeso alla parete (mentre una musica patinata fa da ionico commento) è in realtà la bandiera bianca di un uomo che ha preferito vigliaccamente il silenzio piuttosto che la forza delle proprie opinioni. La storia con la lolita Angela si rivela in tutta la sua vuota pateticità nel momento in cui Lester scopre che l'immagine reale di Angela corrisponde all'inerme debolezza della figlia Jane piuttosto che a quella mentale della virago mangiauomini. Lester capisce in quel momento di essere già morto, e quel gesto di ricoprire la giovane con una coperta è la somma di tutte le tenerezze che aveva negato alla figlia Jane fino a quel momento. La morte coglie Lester proprio nel momento del riconoscimento, proprio nel momento in cui realizza l'impossibilità a ricreare i momenti magici di una bellezza ormai perduta ma contemporaneamente si appropria della lucida consapevolezza della divinità (“mi sento Dio”). Mendes alterna nel finale i flashback della vita di Lester con le reazioni dei familiari alla sua morte: l'effetto è amplificato dalla voce over di Lester, che rappresenta un punto di vista metafisico, ma con un sottile umorismo che stempera ogni retorica, come la musica ambient di Newman che accompagna sapientemente lo scorrere delle immagini. L' American Beauty appassisce molto presto nell'indifferenza e nella mediocrità degli uomini della società occidentale, persi tutti i petali del Grande Sogno (“The world is yours”) rimangono le spine di un inferno quotidiano che amplifica il proprio orrore nelle zone oscure della psicopatologia comportamentale.

Se ancora alla fine del ventesimo secolo, sul letame di vite alienate e disperate, poteva nascere il fiore della consapevolezza e della speranza di poter cambiare le cose (eredità delle rivoluzioni degli anni Settanta), i primi due lustri del ventunesimo secolo hanno evidenziato il trend della no direction road tracciata da Corman McCarthy nel suo No Country For Old Men. E così al posto del sorriso un po' sardonico di Kevin Spacey, un sorriso disarmante tra lo stanco e il rassegnato, si fa largo il ghigno cinico e afinalistico di Anton Chigurt di Non è un paese per vecchi. Ma dov'è finita tutta questa bellezza?

TITOLO ORIGINALE: American Beauty; REGIA: Sam Mendes; SCENEGGIATURA: Alan Ball; FOTOGRAFIA: Conrad L. Hall; MONTAGGIO: Tariq Anwar, Christopher Greenbury; MUSICA: Thomas Newman; PRODUZIONE: USA; ANNO: 1999; DURATA: 122 min.

 


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