Per un cinema dei figli: Marco Bellocchio PDF 
Umberto Ledda   

Quando nel 2002 l’attenzione pubblica si è bruscamente riportata su Marco Bellocchio per il fatto che nel suo film L’ora di religione c’era un personaggio che ad un certo punto bestemmiava (nessuno si è chiesto bene il perché di quel paio di bestemmie, o ha cercato di capire se erano una provocazione da ragazzini oppure qualcosa di più strutturato e significativo: si bestemmiava, e non si fa), Bellocchio era già da un bel po’ di anni che non se lo filava più nessuno, a parte la critica più militante e di sinistra, che iniziava invariabilmente  le sue recensioni con la frase: “l’ultimo film del regista de I pugni in tasca”, come a dire “d’accordo, ne hai fatto uno importante e quindi per rispetto continuiamo a guardare i tuoi film, però tu rimani sempre e soltanto il regista de I pugni in tasca”. Chissà se Bellocchio ha sofferto per quell’oblio: ci sono indizi sia per pensare che non gliene sia mai fregato nulla (il suo stesso percorso, gonfio di parentesi sperimentali ed economicamente suicide), sia per pensare che invece ci abbia sofferto, e tanto (una per tutte: la tirata contro il cinema italiano – la casta chiusa e infantile degli artisti a pagamento – che fa pronunciare a Gianni Cavina in Il regista di matrimoni, da cui emergono rancori, sarcasmi e sassolini nelle scarpe). Fatto sta che oggi, quasi dieci anni dopo L’ora di religione, Bellocchio è finalmente rientrato nel giro, ha scalato un grado nella gerarchia dell’arte, è diventato Maestro, i giornalisti scrivendo di lui possono alternare la dicitura “regista de I pugni in tasca” a quella di “regista di L'ora di religione”, ha perfino vinto qualche David di Donatello (segno che è stato accettato ufficialmente dalla baracca cinematografica italiana). Eppure ... eppure è ancora lì a litigare con i soldi per girare i film. E i suoi lavori continuano ad essere sempre meno di quelli che ci si aspetterebbe e, a differenza degli altri Maestri, non è ancora spuntato nessuno a dichiararsi (o a farsi dichiarare) il nuovo Bellocchio. Posizione strana, la sua. Anche ora che è entrato di fatto nella galassia del cinema di serie a (quello di cui parlano i telegiornali, per intendersi), sembra sempre che sia una specie di infiltrato, un alieno, un sabotatore.

Bellocchio è ampiamente – e giustamente –  ricordato come il regista dell’insofferenza, della disobbedienza, della ribellione, più o meno violente, ogni tanto gratuite. Saldamente radicato nella sinistra meno compromissoria, ha passato gli ultimi cinquant’anni (i suoi primi lavori sono del 1961, I pugni in tasca del 1965) a distruggere simbolicamente, a sgretolare col sarcasmo, ad attaccare di testa e di pancia tutti i rituali e i simboli borghesi che gli passavano a tiro, con un furore enciclopedico. La famiglia, che va in malora, viene sterminata in buona parte dei suoi lavori: istituto privo di senso, guscio vuoto di significati e buono solo per conservarci dentro altarini vergognosi e putride ipocrisie. La religione, con i suoi rituali ridicoli e persecutori (che nascondono gli stessi altarini e le stesse ipocrisie, ugualmente putride), presa a sassate in Nel nome nel padre e, ovviamente, in L’ora di religione. La scuola, l’educazione, la politica sia di destra (Sbatti il mostro in prima pagina), sia di sinistra (La Cina è vicina, Buongiorno, notte) oltre che, va da sé, quella di centro (tutti i film). Le gerarchie militari, il matrimonio, ogni tipo di establishment, ogni status quo. Per finire con il perno supremo di tutta la mentalità borghese dal diciannovesimo secolo in poi: il concetto stesso di normalità e le infinite e puntigliose codificazioni che ha assunto (tutto il periodo degli anni Ottanta in cui fece coppia fissa con lo psichiatra Massimo Fagioli, che divenne il suo mentore e patrocinò i film che, in tutta la carriera di Bellocchio, sono invecchiati peggio). Insomma, tutto. Bellocchio è uno che smonta, che distrugge, che prende sistematicamente quello che viene considerato più o meno sacro, più o meno intoccabile, e lo prende a calci, a dimostrare che sì, si poteva toccare, e dopo che si è rotto non è cambiato niente. Da giovane il suo attacco era espressionista, violentissimo, furioso e sarcastico. Ora l’ironia è diventata più sottile e ci sono più sorrisi che ghigni (la meravigliosa ironia dell’impianto stesso di L'ora di religione, tanto grottesca quanto surreale e raffinata), ma non cambia poi molto nel succo della questione. Distruggere i simboli, sabotare i rituali, ridere apertamente di ciò su cui non si può scherzare (chissà se Bellocchio ha letto L’elogio di Franti di Umberto Eco).

In virtù dell’invadenza tutta italiana, e in qualsiasi ambito, della politica e dell’ideologia, Bellocchio è sempre stato considerato un contestatore, un iconoclasta, in quanto uomo di sinistra. È un approccio un po’ sbagliato, sicuramente sminuente. Certo, Bellocchio è uno dei registi più politici, anche in un panorama, quello italiano, che di registi politici ne ha visti anche troppi. Eppure è molto diverso dagli altri. Perché anche nei film più infoiati e pieni di dottrina degli anni Sessanta sembra sempre che il suo essere comunista, oppositore, extraparlamentare sia più una conseguenza che non una causa. La dottrina, in Bellocchio, è un elemento secondario rispetto alla rabbia e al furore, non viceversa. È sicuramente una sottigliezza, ma è una sottigliezza che basta a renderlo estraneo. Il cuore del suo cinema, del suo essere artista, è umanistico, non ideologico. Il partito, coi suoi manifesti e le sue istanze, viene dopo, prima ci sono pulsioni profonde, un'informe ansia di verità di fronte ad una realtà intollerabile e sporca. Pulsioni che non possono essere definite in altro modo che adolescenziali, ma nel senso buono del termine. Se la nouvelle vague prendeva di mira il cinema dei padri, ma metteva l’accento sulla parola cinema, Bellocchio ha preso alla lettera lo slogan focalizzandosi sul resto. E ha iniziato a fare cinema dei figli. A mettere in scena la distruzione catartica della vecchia società, così come i francesi facevano a pezzi il linguaggio. Lo scopo di questo cinema dei figli è, comprensibilmente, uccidere i padri (anche letteralmente, spesso). L’ansia di verità, l’idealismo inferocito e il sorriso di scherno sono quelli, appunto, di un adolescente che si ribella a una società di cui percepisce esclusivamente i difetti  (in modo magari sconclusionato, ma genuino, talvolta geniale, sempre lucido), a uno status quo che gli pare intollerabile per falsità, compromessi e squallore. Tornando alle opere dell’ultimo decennio, che almeno fino a Sorelle mai non sono certo meno distruttive di quelle più datate, è meraviglioso scoprire come un regista più che sessantenne possa fare un cinema così puramente, e intimamente, adolescenziale.

Da adolescente incorruttibile, Bellocchio è estremista, massimalista e ha uno spiccato gusto per il paradosso e per il volo pindarico. Le sue ribellioni sono assolute, lo scherno non si ferma mai fino a che non rimane in piedi più nulla. Al panorama finto, ipocrita, squallido, tetro, insalubre e malato della normalità sociale preferisce, senza mezzi termini, la follia, la psicosi, i sogni privi di senso, lo scollamento dalla realtà. Ragion per cui il suo cinema, come è pieno di padri e madri stupidi, ottusi, sacrificabili, così è pieno di folli. La follia di Bellocchio è politica: è una forma di protesta estrema, tanto pura quanto, per definizione, non può essere interessata. Oppure, semplicemente, la follia è il modo con cui il potere si libera di chi stava benissimo, ma protestava: basta dichiarare che è un alienato, che non lo si deve ascoltare e il gioco è fatto. In Bellocchio queste due definizioni opposte si intrecciano saldamente. La galleria dei suoi matti è sterminata. Il protagonista esaltato de I pugni in tasca, che con la sorella stermina la famiglia e poi muore solo come un cane per un attacco epilettico. Il fratello bestemmiatore del protagonista de L’ora di religione, che ha ammazzato la madre bigotta che cercava di non farlo bestemmiare. Ida Dalser, in Vincere, che matta non è, ma finisce lo stesso in manicomio per volere del Duce, di cui era stata amante quando entrambi erano giovani e dal quale ha avuto un figlio. E poi, semplicemente, i matti di Matti da slegare, documentario d’attacco sul concetto stesso di follia, sui metodi politici dell’attribuzione della pazzia. E poi ci sono i pazzi di secondo livello, gli artisti, i cercatori di storie, registi, pittori, gente con un piede nel mondo dei normali e uno nel mondo degli alienati: osservatori dell’assoluto, mestieranti col compito di trasformare il mondo in bellezza. Da idealista-umanista, Bellocchio ha sempre creduto nel valore liberatorio e catartico dell’arte: una diversa via, sostenibile, alla follia, una follia leggibile, comunicabile. L’arte è l’unica possibilità di salvezza, l’arte aggira lo status quo, ne ride alle spalle, si affida alla visione invece che alla norma, è follia sana, libera, ma su un piano superiore a quello della realtà fisica, un piano simbolico ed estetico. Così come è estremo nella sua virulenza, Bellocchio è estremo anche nell’esaltazione: della bellezza, delle visioni, della libertà, dell’arte e del sogno.

Come gli adolescenti e i matti, poi, Bellocchio è sempre stato del tutto libero. Libero vuol dire che si è riservato tutti i diritti possibili e immaginabili (con l’arte si può fare). Il diritto al simbolismo in un periodo in cui il simbolismo è quasi vietato: il suo cinema trabocca di simboli e metafore, alcune esplicite, alcune oscure, che rendono i suoi lavori di un anacronismo affascinante. Il diritto di cambiare stile tre volte durante un film, di accostare l’inaccostabile: elementi di cinema tradizionale italiano, esplosioni surreali e farsesche, brani sperimentali e interpolazioni dadaiste, sdoppiamento dei piani di realtà (Il regista di matrimoni, ad esempio, che si svolge e si riavvolge su sé stesso tante di quelle volte che alla fine è un oggetto difficilissimo da prendere). Il diritto di non rispettare le regole: di sceneggiatura soprattutto, costantemente sabotata, non tanto nel nome di uno sperimentalismo cervellotico, ma della semplice libertà, appunto, di voler andare in una diversa direzione, senza alcuna certificazione che sia quella giusta, e accada quel che deve accadere. Ma più in generale il diritto di essere un artista e non un professionista dell’arte, che è invece il percorso quasi obbligato nel mondo culturale degli ultimi decenni. E, di conseguenza, il diritto allo squilibrio, all’imprecisione, all’immaturità, all’errore, alla mancanza di compiutezza. Bellocchio è un regista molto impreciso. Un autore estremamente discontinuo, sia a guardare l’intera sua carriera, fatta di ritorni, parentesi, ispirazioni diverse, periodi eterogenei e cadute di stile, sia a guardare i suoi film, che cercano di osare in ogni scena, e spesso ci riescono, ma ogni tanto non ci riescono per nulla.

Bellocchio è uno di quei registi che accettano anche le conseguenze della libertà, rischiano con consapevolezza la cazzata pur di tentare sempre, pur di non farsi ingabbiare dalle mille regoline e regolette che imbrigliano l’arte in un codice normativo. È così, alla fine, nei suoi film devi sempre andare a cercare un po’ le cose, aspettare il momento in cui centra l’istante perfetto, la pura meraviglia, l’estasi, e perdonargli il tentativo fallito, il tiro talmente azzardato che infatti poi non riesce. L’ora di religione, ad esempio, che rimane il suo film più grande ed esemplare. Momenti orrendi: il piccolo figlio del protagonista che, a inizio film, cerca di scacciare Dio dalla sua testa perché la maestra di religione gli ha detto che è dappertutto e ora il bambino si sente spiato. Scena potenzialmente interessante, sviluppata con un didascalismo terribile, innaturale, falsissimo. Oppure anche: le rozze animazioni al computer realizzate da Picciafuoco dove il Vittoriano si sgretola e crolla a terra, arte scadentissima presentata con orgoglio e senza ironia. Eppure, poi, arriva il famoso momento della bestemmia, giocato sul filo di una sensibilità umana densissima, un momento in cui non c’è nemmeno un po’ di provocazione, ma solo un elogio e una celebrazione della vita e della libertà. Una bestemmia che ha un evidente  e nemmeno troppo paradossale valore mistico, perché se è vero che Bellocchio ama abbattere le chiese, questo non vuol dire che non sia religioso, nel suo modo laico e umanistico, esattamente come un prete (o molto di più). La potenza di quel singolo istante farebbe perdonare mille cadute di stile e mille didascalismi. L’adesione alle regole, al buon senso cinematografico, avrebbe evitato gli errori, ma difficilmente avrebbe lasciato intatta la scena della bestemmia (l’avrebbe forse resa provocatoria, chissà, l’avrebbe caricata di mille significati per giustificare l’azzardo – non si dicono bestemmie – mentre invece è perfetta perché è buttata lì, semplicemente). Il diritto di fregarsene e andare per la propria strada, anche nel caso di imboccare quella sbagliata.

Il diritto, infine, di fare quello che davvero nessuno si aspetta, dopo cinquant’anni. Anagraficamente Bellocchio non è più un figlio, per quanto la sincerità dei suoi film non lasci dubbi. Il suo spirito è rimasto iconoclasta e ironico, anche arrabbiato, ma più sornione, mano lacerato, com’è giusto che sia. Perché accanto all’insofferenza costante e immutabile verso le ipocrisie e le falsità che gli uomini commettono spesso, ha maturato qualcosa di simile alla saggezza. E lui se ne esce con uno dei progetti più piccoli che abbia mai messo su, Sorelle mai, quasi un non progetto, un film minimale, venuto su per caso. Bellocchio, che invece era sempre stato uno che puntava alto, altissimo, che non aveva paura di niente. Un film sul ritorno, sulle radici, che sembra perfino strano per uno che ha passato la vita a tagliarle, le radici, e che però, in fondo, strano non lo è. Anche perché è libero come e più degli altri suoi film: sempre anarcoide, ma in maniera serena. Bellocchio sembra il rivoluzionario che ad un certo punto si ferma, guarda indietro le sue battaglie e scopre di provare affetto per amici e nemici, e si chiede se non stia forse diventando un conservatore. Probabilmente, è solo il fatto che Bellocchio ormai il percorso del rivoluzionario lo ha compiuto in lungo e in largo e, pur non avendo nessuna intenzione di smettere, ha iniziato a vedere le cose da un punto di vista più ampio, quello del tempo con la t maiuscola: saggezza, appunto. E ha visto, con l’esperienza di decenni, che alcune cose alla fine rimangono dopo tutti gli autodafé, i roghi simbolici, i fendenti iconoclasti, e queste cose sono la radice degli esseri umani. Sorelle mai è un film inaspettatamente dolce, girato in famiglia e con studenti di cinema (chissà se è una forzatura parlare di figli) a fare da troupe, è un’ammissione tenera e fiabesca di come, accanto al lato normativo e tarpante della famiglia ne esista un altro, più umano: di come la famiglia sia sì un istituto borghese e una gabbia insopportabile, ma non solo. Sembra un po’ la quadratura del cerchio, una paradossale conclusione del percorso incendiario iniziato con I pugni in tasca, di cui condivide peraltro l’ambientazione. Un film sul tempo che passa e compone/scompone le cose che gli individui non possono alterare.  Sul richiamo dei posti e della gente da cui si proviene, dopo un viaggio lunghissimo e giusto. È la scoperta che eliminato l’eliminabile, in una sterminata ansia di verità, qualcosa comunque rimane, anche se magari non è quello che si pensava sarebbe rimasto.

 


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