1860 - I Mille di Garibaldi PDF 
Amon Rapp   

Con 1860 Alessandro Blasetti inaugura la lunga serie che il cinema italiano, nel corso della sua storia, ha dedicato al Risorgimento, a volte rileggendolo in chiave ideologica o romanzesca, a volte facendolo oggetto di un’accurata ricognizione storiografica. A dire il vero, alcuni tentativi di portare sul grande schermo le vicende cardine che sancirono l’unità d’Italia erano già stati fatti in precedenza (pensiamo al film muto di Mario Caserini, I mille), ma con Blasetti, per la prima volta, il discorso sulla nascita della nostra nazione si fa profondamente politico, consapevole del potere che l’interpretazione del presente ha sulla rievocazione del passato, e nello stesso tempo ben conscio del peso che la Storia può avere sull’ordine attuale.

Il regista segue gli avvenimenti che fecero dell’Italia uno Stato unitario attraverso lo sguardo di due pastori siciliani, Carmeliddu, patriota ribellatosi all’autorità dei Borboni, e Gesuzza, sua giovane moglie, decisa a condividere fino in fondo l’incerta e perigliosa sorte del suo amato. E così mentre Carmeliddu parte alla volta di Genova con l’incarico di portare preziose informazioni ai garibaldini e di sollecitarne un rapido intervento, Gesuzza, catturata dalle truppe svizzere agli ordini del Re delle Due Sicilie, rischia la fucilazione, pur di non rivelare la destinazione del viaggio del marito. I due riusciranno a ricongiungersi nel finale, quando Garibaldi deciderà di sbarcare in Sicilia per aiutare i gruppi di ribelli ormai allo stremo delle forze.

Blasetti racconta i grandi avvenimenti del Risorgimento italiano rarefacendo il più possibile la messa in scena, attraverso un netto rifiuto sia della magniloquenza del dramma in costume sia della sontuosità delle grandi ricostruzioni storiche. Egli si affida piuttosto all’aridità dei paesaggi siculi, alla modestia delle realtà rurali e alla semplicità delle vite contadine, tutte prese dal desiderio di liberarsi dalla dominazione borbonica. Anche il piano del racconto si articola nell’esilità di una linea punteggiata da continue ellissi, brevi episodi che omettono quasi quanto mostrano, scorci e vedute di varia umanità che raramente si sviluppano in vere e proprie tensioni drammatiche. Il film preferisce dunque dare visibilità alla gente comune più che ai grandi personaggi, alle passioni dei combattenti, degli oppressi e delle loro donne più che alle strategie militari decise ai tavoli di guerra e ai grandi piani di riunificazione politica: è il popolo a sembrare il vero motore della Storia, nel cui cuore risiede l’anelito verso la libertà e nelle cui mani si nasconde la forza per realizzarla.

Garibaldi stesso si sottrae allo sguardo della macchina da presa: inquadrato per pochi secondi, perlopiù in campo lungo, in sole sei inquadrature, il condottiero sfugge alla visibilità dell’occhio per ritirarsi nelle retrovie della Storia, quasi a voler lasciare il campo libero ai suoi uomini, fautori in prima persona della grande impresa. Ma a ben guardare il suo ritrarsi non è affatto un mettersi da parte, quanto un elevarsi al ruolo di destinante invisibile, di spirito assoluto che muove e intreccia le trame del mondo, capace di incanalare le volontà dei singoli in un unico sforzo collettivo. È in questo modo che Blasetti attua quella connessione tra passato e presente cara allo spirito del ventennio, innestando una relazione indiretta tra il comandante risorgimentale e il dittatore fascista. Mussolini come Garibaldi, figure al di là dell’umano, singolarità storiche capaci di mobilitare masse di individui per dare vita ad imprese memorabili destinate a perdurare nel tempo. Non duole ricordare che nella versione originale del 1934 il film si concludeva con la sfilata delle camicie nere davanti agli ultimi reduci garibaldini: in questa scena, poi tagliata nell’edizione del 1951, veniva così esplicitamente alla luce ciò che era rimasto sotto la superficie visibile delle cose durante tutto il racconto.

Perché l’abilità di Blasetti consistette nel non eccedere nei magniloquenti trionfalismi o nell’esplicita rivisitazione della storia, sulla scia di una reinvenzione della tradizione che il fascismo in quegli anni propugnava alla popolazione italiana, bensì in un’operazione più sottile, mitizzando la figura del capo carismatico attraverso la retorica dell’evanescenza, che opera per sottrazione e proiezione, ammantando di fascino imperscrutabile tutto ciò che si rifiuta di mostrare (esemplare la frase “Qui si fa l’Italia o si muore” pronunciata durante la battaglia finale a Calatafimi da un Garibaldi fuori campo). E così il pubblico dell’epoca poteva ritrovare nella figura di Garibaldi l’archetipo e il prodromo del proprio dictator, una leggenda in cui riversare il proprio vissuto attuale, per sentirsi nuovamente protagonista attivo e fattivo della Storia. Passato e presente si ritrovavano in questo modo indissolubilmente connessi, l’uno specchio dell’altro, l’uno servo dell’altro.

TITOLO ORIGINALE: 1860 - I Mille di Garibaldi; REGIA: Alessandro Blasetti; SCENEGGIATURA: Alessandro Blasetti, Emilio Cecchi, Gino Mazzucchi; FOTOGRAFIA: Anchise Brizzi, Giulio De Luca; MONTAGGIO: Alessandro Blasetti, Ignazio Ferronetti, Giacinto Solito; MUSICA: Nino Medin; PRODUZIONE: Italia; ANNO: 1934; DURATA: 81 min.

 


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