In memoria di me PDF 
Elisa Mandelli   

“Diventare una persona”. Questo si ripromette Andrea (Hristo Jivkov), giovane bello e di successo, lasciando tutto per entrare nel convento gesuita sull’isola veneziana di San Giorgio Maggiore, chiudendosi nel silenzio e nella meditazione per cercare una risposta alle domande che lo assillano. Diventare una persona, certo. Ma, come gli farebbe notare il suo dubbioso compagno Fausto (Fausto Russo Alesi), tutto dipende da cosa si intende per “essere una persona”. Riuscire ad annullare la propria volontà nel rispetto di norme imposte dall’alto (più dall’alto di una gerarchia che dalla divinità)? Sapersi rinchiudere in quel silenzio indifferente che rappresenta per l’Ordine il fine cui deve tendere l’“uomo di Dio”? Oppure uscire, “sporcarsi le mani”, trovare la fede nel peccato, fare, forse, dei passi falsi, ma sempre in nome di un amore profondo, vivo e palpitante? È questo il dubbio che tormenta Andrea, che lo assilla nelle lunghe notti insonni passate a vagare per i corridoi bui e deserti del convento, in un silenzio rotto dai sussulti di presenze misteriose e quasi spettrali. È questa la risposta che egli cerca, disperatamente, nello sguardo dei compagni, nei loro gesti, nelle poche parole scambiate trascurando i divieti. Accettare l’isolamento più estremo come condizione di un autentico contatto con il divino, o gettarsi nuovamente in un mondo (in senso evangelico) ormai sideralmente lontano, quasi un grottesco miraggio che scivola via, lento e pesante come le navi nella laguna al di là delle vetrate?

Insomma, stare dentro o fuori? Come già in Private, sembra essere questo il nodo del problema: nel primo, folgorante, lungometraggio del regista romano (1), la famiglia palestinese sceglie di restare prigioniera in casa propria per non abbandonarla nelle mani dell’esercito israeliano, di combattere letteralmente dall’interno una guerra in cui, in fondo, è anche una questione di spazio, di territorio, di soglie che si pretendono invalicabili. La casa diventa allora una trincea dai confini più elastici di quanto si vorrebbe, continuamente ribaditi dagli occupanti ma ostinatamente violati dai proprietari/prigionieri, con i corpi e, soprattutto, con gli sguardi. Corpo e sguardo sembrano essere l’unica arma rimasta anche ad Andrea, spogliatosi di tutto nell’accettare il ritiro monastico: sono questi i mezzi con cui egli, sperando di sciogliere i propri rovelli, cerca risposte fissando i compagni dritto negli occhi, seguendone i passi e chiedendo loro aiuto con la sua sola, smarrita, presenza. Ma per quanto tenti di sfondarne le resistenze, essi sono completamente barricati nello sforzo della fede, isole su un’isola ormai al di fuori di qualsiasi rotta terrena.

Eppure ad Andrea paiono umani, troppo umani, i rapporti di forza su cui si regge questo microcosmo che, come recita una battuta del film, più che salvare il mondo lo replica. Non a caso i novizi che lo attraggono di più (un’attrazione forse anche erotica, ma solo latente e di sicuro meno significativa che nel romanzo di Furio Monicelli da cui il film è tratto: Il Gesuita Perfetto), sono dunque quelli più tormentati: Fausto e Zanna (Filippo Timi), la cui irrequietezza li porterà a mettere in discussione non solo la propria scelta individuale, ma l’istituzione monastica stessa. La rinuncia sembra allora, per un attimo, l’unica scelta possibile, autentica, e nello stesso tempo provocatoria, rivoluzionaria, così come il bacio (non omoerotico, ma dichiaratamente dostoevskijano) che Zanna dà al suo superiore prima di andarsene. Eppure, se egli sorride nel lasciarsi alle spalle il convento, camminando, come si era ripromesso, in direzione contraria, anche il volto di Andrea appare sereno mentre egli, scegliendo definitivamente di restare, richiude dietro di sé le porte della chiesa.

Ma allora dov’è la soluzione: dentro o fuori? Probabilmente da nessuna delle due parti, quanto piuttosto nella loro dialettica, nella loro costante oscillazione: interno ed esterno sono in fondo reversibili, mentre ciò che conta davvero sono le relazioni tra uomini che si trovano, per scelta o per necessità, a convivere. Dinamiche rese esplicite nei rari ma densissimi dialoghi, restituite da uno stile che accosta magistralmente silenzi e musiche (classica, ma anche i valzer che i religiosi ascoltano durante i pasti), che alterna fluidi carrelli e intensi piani fissi, volti ora ad amplificare il severo rigore delle architetture palladiane del convento, ora a sottolineare le minime contrazioni di volti su cui affiorano, senza veli, i più intimi moti dell’anima. A Costanzo dunque non interessano (o non interessano innanzitutto) la fede, la religione (o la politica in Private), quanto piuttosto l’infinita modulazione dei rapporti che coinvolgono gli esseri umani: del singolo con se stesso, dell’individuo con la comunità, della comunità con ciò che le è estraneo (in primo luogo con le altre comunità). Forse allora è proprio qui, in quest’inestricabile groviglio di legami, incontri e scontri, o piuttosto nell’interstizio, nello spazio franco che ciascuno sa ritagliarsi in esso, che si trova la vera posta in gioco, quella meta che a ognuno è dato di cercare, e conquistare, a modo suo: la libertà.

Note:
(1) Che a dire il vero aveva già realizzato, nel 2002, il documentario Sala Rossa, e al documentario tornerà con Auschwitz 2006 (2007), racconto del viaggio di un gruppo di studenti romani nel campo di sterminio in Polonia.

TITOLO ORIGINALE: In memoria di me; REGIA: Saverio Costanzo; SCENEGGIATURA: Saverio Costanzo; FOTOGRAFIA: Mario Amura; MONTAGGIO: Francesca Calvelli; MUSICA: Alter Ego; PRODUZIONE: Italia; ANNO: 2006; DURATA: 113 min.

 


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