Presentati al Cinema Massimo, nell'ambito della rassegna Memoria dei testimoni e testimonianza delle immagini curata dal Goethe Institute di Torino, tre dei cinque documentari che compongono la serie Broken Silence: Pamietan/I Remember (Io ricordo) del polacco Andrzej Wajda, Algunos que vivieron/Some Who Lived (Alcuni che vissero) dell'argentino Luis Puenzo e Deti iz besdny/Children of the Abyss (I bambini dell'abisso) del russo Pavel Chukhraj.
Commissionati dalla Survivors of the Shoah Visual History Foundation, creata da Steven Spielberg nel 1994, i documentari rappresentano un interessante recupero di quell'autenticità nell'approccio al tema dell'Olocausto perdutasi nel cinema degli ultimi anni.
In controtendenza rispetto al filone inaugurato dallo Schindler's List di Spielberg e fissatosi in veri e propri film di genere (da commedie ai limiti della mistificazione dei fatti come La vita è bella al sano surrealismo di Train de vie), questi documentari ripropongono la viva voce dei sopravvissuti, nell'intento di rendere note al grande pubblico parte delle oltre 50.000 interviste raccolte in pochi anni dalla fondazione. Affidati a documentaristi noti delle nazioni cui sono destinati e costruiti rispettando la medesima durata e struttura, che alterna quattro o cinque interviste alle immagini (di repertori e non), i video riflettono con impressionante lucidità le contraddizioni non ancora sopite di ogni singolo Paese ed i diversi approcci al problema della memoria dell'Olocausto.E sono proprio le interviste scelte, tra le migliaia disponibili, a fissare il tono del documentario, di volta in volta più o meno legato alle vicende personali e più o meno aperto a riflessioni più ampie sul problema.La visione del documentario argentino, Algunos que vivieron/Some Who Lived (Alcuni che vissero), nel suo riflettere sul paradossale e inevitabile confronto tra carnefici e vittime, reso possibile dalla terrificante situazione dell'Argentina (prima terra promessa per gli ebrei in fuga e poi rifugio di criminali nazisti), stimola un interessante parallelo con il recente film di Marco Bechis, Figli-Hijos.Come il cineasta, che propone un'elaborazione a posteriori del problema, ma ben ancorata al presente, così Luis Puenzo decide di dar voce a quel tipo di sopravvissuti che, forse per cultura o per scarsa ebraicità, sono stati in grado di elaborare una riflessione che va oltre la semplice cronaca, per quanto terribile, dei fatti. La possibilità, cioè, di scoprirsi vicini di casa del comandante del campo in cui i propri famigliari sono stati assassinati o di ritrovarsi privati dei veri genitori perché dissidenti puniti con la morte.
Più scioccante quello russo, Deti iz besdny/Children of the Abyss (I bambini dell'abisso), che con resoconti agghiaccianti e immagini di repertorio piuttosto crude ricostruisce il momento materiale del genocidio duro e puro, senza campi di concentramento e senza una pianificazione che andasse oltre la rappresaglia sistematica o lo sterminio immediato di interi paesi, volto ad impedire il perpetrarsi della razza. I racconti degli allora bambini di Babi Jar (dove nel 1941, in due soli giorni, vennero uccise e gettate in un'enorme fossa comune più di 30.000 persone) sono così paradigmatici della sorte che subirono gli ebrei all'est, tra l'ostilità della popolazione locale e le persecuzioni della polizia ucraina stessa (1).
È il documentario polacco, Pamietan/I Remember (Io ricordo), privo di riflessioni che vadano oltre la contingente assurdità di una persecuzione simile a tante altre, a rivelare i limiti dell'impegno della Survivors of the Shoah Visual History Foundation.Nel suo essere così politically correct il video di Andrzej Wajda, con il Papa che prega sul muro del pianto in segno di riconciliazione, le interviste così intime e sofferte e la "Marcia dei vivi" ad Auschwitz, manca il bersaglio, non riuscendo a chiarire l'eccezionalità della Shoah in quanto genocidio tra i tanti e la necessità di riproporla alle nuove generazioni.Viene così da pensare che la testimonianza di un ebreo sopravvissuto sia più importante di quella di un vietcong internato dagli Americani, di un algerino torturato dai coloni Francesi, o di un palestinese perseguitato da Israele. Perché, ci si chiede, invece di un'unica, sterminata memoria dell'Olocausto (finalizzata anche a riabilitare l'immagine dell'ebreo nella storia), non creare una memoria globale di tutte le persecuzioni che sia davvero monito per il futuro? Perché suggerire, con esperienze come la Survivors of the Shoah Visual History Foundation, una specie di gerarchia tra i genocidi, perdendo di vista il carattere unico ed eccezionale di ogni sterminio?
(1) In un interessante saggio dal titolo Uomini comuni, Einaudi (1995), Browning ricostruisce l'identità dei tremila soldati tedeschi artefici del genocidio in Ucraina. Uomini comuni, appunto, che al seguito della Wermacht avevano il compito di ripulire i territori conquistati.
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