Into The Void. L'occhio magico di Gus Van Sant perso in un'adolescenza senza emozioni PDF 
Gianmarco Zanrè   
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Into The Void. L'occhio magico di Gus Van Sant perso in un'adolescenza senza emozioni
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Load up on guns and bring your friends. It’s fun to lose and to pretend. She’s over bored and self assured. Oh no, I know a dirty word. Hello, hello, hello, how low? Questo è l’attacco di uno degli inni simbolo della “generazione x”, quello “Smells Like Teen Spirit” che trasformò i Nirvana in una band planetaria e Kurt Cobain in un mito del rock. Gus Van Sant, eclettico, chirurgico, magico cineasta di Portland, che certo non può essere definito esattamente un adolescente, aveva dipinto il mistico Last Days ispirato dallo stesso cantore di Seattle morto suicida nell’ormai lontano 1994, conscio della sua straordinaria capacità di raccontare i turbamenti che, dai tempi di Goethe e del suo giovane Werther, attraversano i cuori di chi cerca di destreggiarsi senza cadere troppe volte camminando sulla sottilissima corda che separa fanciullezza ed età adulta. Così come nel succitato Last Days, e ancor più in Gerry, Will Hunting, Scoprendo Forrester, Belli e dannati, ma soprattutto Elephant, anche in Paranoid Park al centro dell’attenzione del regista e dell’occhio della sua macchina da presa c’è un adolescente, Alex: skateboard e solitudini esistenziali, ammirazione per la “rivolta”, genitori separati e meglio gli amici di una ragazza troppo appiccicosa. Il problema sta nel fatto che dietro tutto questo si nasconde il morto. Anzi, neppure troppo, visto che il morto salta fuori.
 
Image“Ed è qui - come direbbe il bardo - che c’è l’inghippo”, cita il famigerato Dalton Russell, protagonista del magistrale Inside Man di Spike Lee: il morto salta fuori. E cosa fa, il nostro Alex? Si spaventa, si tormenta, compra una tavola nuova, corre a lasciare la sua ragazza appena sverginata, ne trova un’altra, ma senza che faccia troppa differenza, si destreggia fra le tensioni a distanza dei suoi genitori freschi di separazione, scrive su un diario quello che non potrà raccontare mai a nessuno, per togliersi il peso. Il fuoco sarà panacea dell’inquietudine, eppure il fatto rimarrà, ma distante, come la notizia di un giornale di cui si leggono solo i titoli. A caso, giusto prima della pagina dello sport. Insicuro, silenzioso, crudele, tormentato, agghiacciante Alex: il suo ritratto, questo spaccato di vita vissuta in superficie per noia, età, mancanza d’aspirazioni, dovrebbe riportare alla mente la Columbine e il terrore glaciale dello splendido Elephant, con i corridoi interminabili, i morti come in un videogioco, una colonna sonora straripante ed ellissi da brividi. Gli ingredienti ci sono tutti, ma, e duole dirlo rispetto a un regista unico come Van Sant, pare mancare il più importante: quel (teen) spirit che rende una storia una Storia, e non un semplice esercizio di stile. Paranoid Park e il suo magico torpore sono figli della stessa mancanza di spessore del suo protagonista, innocuo se paragonato a un vero assassino, apatico se confrontato alla fucina di emozioni che un cuore giovane dovrebbe portare con sé. Certo, la chiave di tutto potrebbe essere proprio questa, come la scena della doccia e la lettera bruciata paiono suggerire, eppure qualcosa, nell’occhio sempre profondo di Van Sant, sembra essersi offuscato, perso in una giovinezza che l’autore appare (?) invidiare a questi figli del disagio che dimenticano, tra un halfpipe e un altro, o inseguendo i treni, quel mondo adulto in cui, testualmente, “si pensa soltanto ai soldi”. Un mondo che, senza saperlo, loro stessi già rappresentano, con i rituali di gruppo, gli i-pod, i vestiti e le tavole delle marche giuste, i videogiochi più recenti. E le separazioni. È dunque questa la chiave giusta di ricerca? I figli, gli adolescenti, i loro problemi, o l’indifferenza di fronte ad essi, sono il seme piantato da una generazione precedente rivelatasi fallimentare sul fronte educativo? O è la società, il tempo, ad aver spinto quelli come Alex dove si trovano, in un limbo quasi dantesco dove la poesia di una panchina in riva al fiume viene cancellata dalla strafottenza di un solo sguardo?

ImageLa soluzione più verosimile è che la verità stia nel mezzo, e che, in un modo o nell’altro, molteplici fattori influenzino l’evoluzione e la crescita di ogni generazione: il problema che pare riscontrare Paranoid Park, al contrario della maggior parte delle pellicole di Van Sant, sta nel fatto che il regista non sembra preoccuparsi di dare risposte, e che, al contempo, non si sia fatto carico neppure di fornire una testimonianza che potesse quasi accostare fiction a cronaca (una volta ancora vedasi Elephant). Dalla sua il regista di Portland porta in ogni caso la consueta, magistrale sensibilità nell’evoluzione del racconto e nella gestione delle ellissi, come sempre sintesi perfetta di una non comune abilità anche in veste di sceneggiatore e un utilizzo della macchina molto simile a quello dei contemporanei maestri d’oriente, manifestando una duttilità che, nel cinema statunitense (e non solo), è ormai merce rara. La colonna sonora, anche questo comune denominatore ai lavori del cineasta, compenetra e amplifica le immagini, divenendo ben più di un supporto, e la scelta di alternare sequenze più “pulite” a riprese “amatoriali” (16 e 35mm), compresi i sorprendenti segmenti dei ragazzi ripresi durante le evoluzioni più o meno riuscite sugli skateboards, diviene un viatico per una compenetrazione anche visiva del racconto. A tal proposito è impossibile non citare quella che, a parere di chi scrive, resta la sequenza più intensa dell’intera opera: il lento volteggio dello skater che, quasi fluttuando sulle pareti di un tubo di scolo inutilizzato, viaggia ondeggiando, lentamente, verso la luce alla fine del tunnel. Immagine di rara poesia metropolitana che trasporta lo spettatore come e molto più dell’intera pellicola, testimonianza ulteriore di quanto il talento di Van Sant sia, in questo caso, come soggiogato dalla necessità di dover raccontare una storia “alla Van Sant”. Proprio il regista, nel corso della presentazione del film, ha fatto riferimento ad uno dei capolavori letterari di tutti i tempi, quel Delitto e castigo nel quale Dostoevskij riversò tutte le angosce, le passioni, le ansie di chi, e lui poteva dire di esservi sopravvissuto, vedeva sulla propria testa pendere una condanna a morte a seguito di un delitto commesso in totale coscienza e desiderio di affermazione in un mondo apatico e quasi miserabile. Di questo opinabile accostamento resta vera soltanto la sensazione che il mondo attorno al protagonista funga, semplicemente, da vuoto contenitore, una giostra senza conducenti, e senza bambini, in cui tutto pare perduto in un vorticare privo di direzione. Ma come può essere accostabile la vicenda umana di Raskolnikov, indimenticabile ribelle dostoevskiano, apatico per scelta, ma travolto dalle passioni e dal sangue, rispetto all’efebico, compassato Alex? Negli occhi della guardia che scivola dal treno, che si trascina, in una parentesi quasi cronenberghiana, strisciando a terra le interiora, come un serpente senza testa, non compaiono tracce d’odio, o rancore, o volontà di sfidare il giovane assassino (?) di fronte a lui: solo incredulità pesa sulle palpebre di un uomo strappato per caso alla vita, uno stupore puro e dissociato dalla realtà dei fatti. La domanda, in questo caso, non pare essere “chi?”, quanto piuttosto “perché?”.

In qualche modo, dunque, il primo dei presupposti non sussiste: il delitto, a tutti gli effetti, non avviene. Ci scappa il morto, come già scritto. E tant’è. Ad Alex basta liberarsi dei vestiti e di un poco (molto, molto poco) di coscienza per dimenticarsene: pensate ad un pubblico che osserva una splendida, perché di questo siamo pur certi, opera di fiction. Indifferenza. Di nuovo sorge il dubbio che sia questa la chiave di lettura principale per questo lavoro di Van Sant. L’indifferenza del suo protagonista come specchio di un pubblico che nasce indifferente: ma dov’è finita la meraviglia del cinema e della sua narrazione? Di fronte a un maestro come l’autore di Portland si dovrebbe rimanere sconvolti, citando Keats, “In Verità Bellezza, in Bellezza Verità”. Eppure questo cinema svuotato rischia di apparire davvero vuoto, lasciando a bocca asciutta anche tutta l’audience che - malgrado suoni strano, o quasi contradditorio - in un modo o nell’altro, nel buio della sala, cerca emozioni che possano stimolare quello che si perde nella quotidianità o, più semplicemente, un confronto con l’Altro che porti a sé stessi. Sfido chiunque a cercare qualcuno che preferisca identificarsi con Alex piuttosto che con Raskolnikov, di fronte e fra le mani tutta la sua umanità: perché l’uomo è tante cose, molte delle quali delle peggiori possibili, ma, da buon “animale sociale”, non può esimersi dall’emozione, di qualunque genere essa sia. Nel cinema, quello maiuscolo e attuale, due nomi, in particolare, ricordano quanto sia possibile unire “l’alto” al “basso”, il sacro al profano: Cronenberg, per l’appunto, e Eastwood.

ImageScartato il delitto, eccoci giunti ora al confronto con il castigo: da subito appare evidente una contraddizione in termini rispetto alla vita del buon Alex. Eccezion fatta per il lieve senso di protezione all’indirizzo del fratello minore, infatti, il nostro pare controllare bene gli aspetti importanti della sua esistenza. Importanti per lui, per lo meno. Quasi insensibile rispetto alla situazione vissuta dai genitori o alla paura di essere “beccato” - se si esclude la notte del crimine, comunque facilmente archiviata con qualche ora di sonno e il succitato diario dato in pasto alle fiamme -, così come al gentil sesso e al confronto con l’esterno (emblematico il suo rapporto con la tanto ammirata pace estatica del Paranoid Park, che Alex si limita ad osservare, considerandosi ancora ad un livello troppo basso nell’esperienza sulla tavola per potersi confrontare con gli assi che in quel piccolo angolo di mondo regnano quasi incontrastati), Alex passa immune attraverso colpa, pentimento e legge, sia essa rappresentata da affabili e accomodanti investigatori o da inflessibili rappresentanti della legge di uno scalo merci ferroviario. Proprio nel castigo, in qualche modo, trovava forza ancora maggiore il capolavoro di Dostoevskij, rivoluzione interiore di un protagonista che si faceva parte principale ed integrante di un percorso, una ricerca, una - se così si può chiamare - rivoluzione. La rivoluzione di Alex sta, invece, tutta nel cambio della tavola, o della ragazza con cui illudersi, e forse neppure tanto, di stare in sintonia mascherando la realtà dei fatti, ovvero la necessità di uscire con una quasi coetanea che apra le gambe all’occorrenza, ma che, al contempo, tenga chiusa la bocca, specie rispetto alle uscite con gli amici, allo skate o ai videogiochi. I tempi sono cambiati, e le rivoluzioni con loro, ma quello che muove l’uomo è sempre lo stesso anelito, una brama di vita che, in tutta onestà, in Alex, e in quest’ultima pellicola del geniaccio di Portland, fa da grande assente allo spettacolo di cui dovrebbe essere protagonista (quasi) assoluta.


 


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