Gli americani, si sa, le bugie se le legano al dito. E forse ancora più di una guerra inutile e fallimentare – un “secondo Vietnam” – negli Stati Uniti brucia la ferita aperta di una propaganda clamorosamente falsata, una disastrosa operazione bellica alla ricerca di armi fatali mai esistite. Dieci anni dopo la partenza delle truppe, Hollywood cicatrizza come può e continua a sfornare produzioni che tornano sui luoghi del delitto: vuoi scendendo direttamente sul campo di battaglia iracheno, vuoi disegnando intrighi internazionali che partono dai deserti d’Africa e finiscono dritti negli uffici della Casa Bianca.
A questa seconda categoria va ascritto Fair Game, ultimo titolo di Doug Liman ispirato alla storia (vera) dei coniugi Wilson. Abile agente segreto dell’Intelligence lei, ex ambasciatore ONU con il vizio della verità lui, vengono sbattuti in prima pagina perché rifiutano di reggere il gioco delle alte sfere. Oggetto dichiarato della critica di Fair Game è l’amministrazione di George Bush Jr – ormai un vero e proprio pungiball per le patologie degli USA –, chiamato in causa attraverso immagini di repertorio e le fattezze di un capogabinetto della vicepresidenza che lo ricorda vagamente. Ritrovandosi a spulciare (e sul serio) nel mondo dei servizi segreti (“è il seguito di Mr e Mrs Smith”, scherza l’autore), il film pare molto interessato alla geografia del potere e molto poco alle ragioni di cuore. Al punto che per disegnare le premesse politiche ci impiega un tempo intero, mentre alle psicologie abbozzate dei due e alla loro vita familiare riserva un paio di episodi appena: troppo poco per poi pretendere che lo spettatore partecipi alle sventure matrimoniali che si dilungano lungo tutta la seconda parte.
Non è banale, di contro, la concezione combattuta di verità che Liman sceglie di portare avanti: il suo Sean Penn, sigaro, capello lungo e aria “impegnata”, avrebbe tutte le carte in regola per aggiungersi alla fila degli eroi del truth be told, un virtuoso solitario che risale la corrente per il sacro nome della giustizia. Senonchè quella controparte femminile che solitamente è rappresentata come un fragile angelo del focolare, poco più che un ulteriore “resistenza” incontrata lungo il cammino, in questo caso gioca un ruolo quanto mai attivo. Da buon agente segreto, Valerie Plame (una Naomi Watts che è calco leggermente “abbellito” dell’originale) ha imparato a tenersi per sé ogni verità, e inizia a rischiare grosso proprio quando vede il suo nome nero su bianco sulle pagine dei giornali. Dall’altra parte, Joseph Wilson rivendica un altrettanto sacrosanto diritto di urlare al mondo la propria versione dei fatti e di combattere un potere che cerca di ridurlo al silenzio con le cattive. Come va difesa, allora, la verità? Mettendola al riparo dagli attacchi o sventolandola in piazza? Malgrado l’inconsistenza delle due personalità in gioco, l’interrogativo è intrigante, e per qualche attimo, l’esito della storia sembra tutt’altro che scontato.
Ma la vicenda, si diceva, è già stata scritta: Liman dovrà sciogliere in fretta dubbi e riserve per riportarsi sulla retta via. E quell’ambiguità, che poteva essere un valore aggiunto sul conto di un’opera tutto sommato canonica, finisce per smussare ancora di più il suo j’accuse.
TITOLO ORIGINALE: Fair Game; REGIA: Doug Liman; SCENEGGIATURA: Jez Butterworth, John-Henry Butterworth; FOTOGRAFIA: Doug Liman; MONTAGGIO: Christopher Tellefsen; MUSICA: John Powell; PRODUZIONE: USA; ANNO: 2010; DURATA: 107 min.
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