Cinema Ritrovato 2012: il paradiso dei cinefili PDF 
Francesca Druidi   

In un periodo in cui si discute molto del ruolo e della funzione della critica cinematografica, in Italia e non solo, e dove si parla sempre più insistentemente di una cinefilia rinnovata, sebbene con modalità differenti dal recente passato, la 26esima edizione del Cinema Ritrovato di Bologna (svoltasi dal 23 al 30 giugno) si riconferma oasi felice per gli appassionati della settima arte, proponendo un fitto cartellone di retrospettive, dossier, omaggi, opere recuperate dall’oblio del tempo e della memoria e restauri eccellenti riconsegnati a un pubblico composto in misura crescente anche dalle nuove generazioni. Più che soddisfacente il bilancio dell’edizione 2012: 1800 accreditati, 20 per cento in più dello scorso anno, distribuiti nelle 4 sale della rassegna e nella suggestiva location serale rappresentata da Piazza Maggiore; 1000 gli stranieri accreditati, provenienti da 37 paesi di tutto il mondo; oltre 300 i film proiettati e decine gli ospiti, tra artisti e rappresentanti delle cineteche più prestigiose. Agnès Varda, John Boorman, Thelma Schoonmaker e Gianni Amelio sono stati tra i protagonisti della kermesse con le loro lezioni di cinema, alle quali si sono affiancati incontri-confronti dedicati proprio alla cinefilia e alle sue prospettive nell’epoca del digitale, alla presenza di critici quali Thierry Fremaux, Jean Douchet, Michel Ciment, Jean Gili, Kevin Brownlow e David Robinson.

Dai primi sonori giapponesi alla panoramica dei film del 1912 (la sezione “I film di cent’anni fa”); da una ricognizione sul cinema dopo la grande crisi del ’29 - opere che in qualche modo riflettevano lo spirito e gli umori della Grande Depressione (tra cui lo struggente Vicino alle stelle di Frank Borzage del 1933 con Spencer Tracy e Loretta Young, ambientato nella bidonville di New York) - al cinema documentario italiano e ai muti musicali, il Cinema Ritrovato ha, come sempre, offerto molteplici percorsi di ricerca e di visione. Sono state dedicate retrospettive a Lois Weber, una delle più importanti registe e sceneggiatrici del cinema muto americano; ad Alma Reville, ovvero la signora Hitchcock, a sua volta regista e sceneggiatrice, collaboratrice del marito anche se spesso non accreditata; al cineasta russo Ivan Pyr'ev e al regista francese Jean Grémillon. L’ampia retrospettiva dedicata a uno dei grandi registi del cinema classico hollywoodiano ha avuto, quest’anno, come protagonista Raoul Walsh. Oltre alle sue opere più note come Il ladro di Bagdad (1924) e Il grande sentiero (1930), sono stati proiettati i primi titoli come The Mystery of the Hindu Image (1914) e Pillars of Society (Le colonne della società, 1916), tratto dall’omonimo dramma di Ibsen, e lavori meno conosciuti come Il passaporto giallo (1931), efficace melodramma (anche questo tratto da un dramma teatrale) ambientato nella Russia pre-rivoluzionaria con Elissa Landi, Lionel Barrymore e un giovane Laurence Olivier, dove risultano interessanti gli esiti raggiunti da Walsh nel trattamento dello spazio e nella composizione fotografica grazie alla collaborazione con il grande direttore della fotografia James Wong Howe. In cartellone anche il potente Notte senza fine (1947), commistione di western e noir a sfondo psicoanalitico sulla personale ricerca di un uomo, Jeb Rand (Robert Mitchum), del proprio passato e del proprio posto nel mondo. Scritto da Niven Busch e ambientato nel selvaggio New Mexico, il film può contare ancora una volta sulla straordinaria fotografia di James Wong Howe e sulla musica di Max Steiner.

La sezione nevralgica di tutto il festival resta “Ritrovati e Restaurati”, che quest’anno ha annoverato alcuni dei titoli più emblematici della storia del cinema, come l’extended version di C’era una volta in America di Sergio Leone (1984), La grande illusione (1937), capolavoro anti-militarista di Jean Renoir, il cui restauro in 4K è frutto dell’intensa collaborazione tra la Cineteca di Tolosa e quella di Mosca (il negativo originale nitrato del film era stato prelevato a Berlino dall’Armata Rossa nel 1945 dopo che, a sua volta, era stato trafugato dai tedeschi a Parigi); e poi ancora Lola (1961) di Jacques Demy, con Anouk Aimée; Les Misérables, seriale versione anni Trenta del romanzo di Victor Hugo, e Viaggio in Italia (1954), uno dei capolavori della coppia Rossellini-Bergman. Considerato uno dei film-apripista del cinema moderno, amato dagli artefici della Nouvelle Vague e ispiratore di tutta una generazione di cineasti, Viaggio in Italia è l’incursione del regista di Germania anno zero nel matrimonio in crisi di una rispettabile coppia della middle class inglese, Alexander (George Sanders) e Katherine Joyce (Ingrid Bergman), approdata a Napoli per concludere una compravendita immobiliare. La vicinanza con un ambiente fisico, culturale ed emotivo completamente differente dalla loro dimensione, condurrà la coppia - e in particolare Katherine - a intraprendere un viaggio solo all’apparenza esteriore, alla scoperta di Napoli e delle sue bellezze (storiche, naturali, artistiche), ma di fatto soprattutto un percorso interiore e spirituale di auto-critica e di presa di coscienza dei propri errori e dei propri valori. La copia presentata al festival identifica il restauro digitale della versione inglese, attento in particolare a conservare la lucentezza della fotografia originale.

L’immagine-simbolo di questa edizione appartiene al film dei film, quel Once Upon a Time in America, la cui proiezione in Piazza Maggiore ha, di fatto, inaugurato la manifestazione. Restaurato dalla Cineteca in collaborazione con Andrea Leone Films e Regency Enterprises, grazie al contributo di Gucci e della Film Foundation di Scorsese, il film rappresenta la versione più vicina al disegno originario di Sergio Leone: lunga oltre 4 ore, ottenuta reinserendo le sei sequenze mancanti - circa 26 minuti -, spuntate dal montaggio definitivo dallo stesso Leone della versione europea fino ad oggi largamente conosciuta e apprezzata. Ma facciamo un passo indietro. Ispirato al romanzo The Hoods (in Italia Mano armata), C’era una volta in America si caratterizza per una gestazione laboriosa, a cui faranno seguito tribolate vicissitudini in fase di montaggio. La sceneggiatura prende corpo in circa undici anni; alla sua stesura contribuisce un nutrito gruppo di sceneggiatori italiani: Kim Arcalli, Enrico Medioli, Leo Benvenuti e Piero De Bernardi, al quale si aggiunge, in un secondo tempo, Franco Ferrini (nella fase finale di stesura dei dialoghi inglesi sarebbe intervenuto anche Stuart  Kaminsky). Il risultato finale è un’opera fiume che il produttore Alberto Grimaldi non si sente di produrre. L’incontro di Sergio Leone con Arnon Milchan e la Warner sembra essere la svolta; entrano nel progetto Robert De Niro e James Woods, che all’ultimo festival di Cannes, alla presentazione ufficiale della copia restaurata, hanno ricordato commossi quell’esperienza indimenticabile definendo C’era una volta in America come il “film della loro vita”.

La durata finale del lungometraggio firmato da Leone è però proibitiva per i produttori americani e i tagli in sala di montaggio entreranno di prepotenza nella storia del film: alla versione statunitense disconosciuta da Leone, con le scene rimontate in senso cronologico per una durata di poco più di 2 ore, si contrappone la versione europea, presentata a Cannes nel maggio del 1984, della durata di 3 ore e 49 minuti. Grazie alla collaborazione di chi partecipò alla lavorazione del film (il co-sceneggiatore Franco Ferrini, il produttore esecutivo Claudio Mancini, i montatori Patrizia Ceresani e Alessandro Baragli, il montatore del suono Fausto Ancillai, Ennio Morricone) e alla ferma volontà della famiglia Leone, è stato possibile completare questa ricostruzione, che rende giustizia a un titolo imprescindibile della cinematografia mondiale, uno degli ultimi grandi “kolossal” realizzato senza ausilio di tecnologie digitali, sospeso tra mito, tempo, sogno e nostalgia. Il laboratorio dell’Immagine Ritrovata di Bologna, che si è occupato del restauro digitale del film fotogramma per fotogramma (il negativo camera originale 35mm è conservato a Los Angeles ed è stato scansionato a risoluzione 4K presso Warner Bros Motion Picture Imaging), ha potuto fare riferimento alla sceneggiatura originale che circolava sul set e ai fotogrammi di testa e di coda delle sequenze tagliate, che hanno permesso di individuare esattamente il punto in cui erano state montate. Tra le sequenze reinserite nel director’s cut: l’incontro al cimitero ebraico di Riverdale tra Robert De Niro-Noodles e il premio Oscar per Qualcuno volò sul nido del cuculo Louise Fletcher (che interpretava la direttrice del cimitero, l’azione è ambientata nel 1968) e la scena dove Deborah (Elizabeth McGovern) recita a teatro il ruolo di Cleopatra, prima dell’incontro cruciale con Noodles (sempre nel 1968), una sequenza a cui il regista teneva molto e per la quale aveva appositamente consultato un regista shakespeariano. A complicare il restauro è stata la qualità fotografica delle sequenze reinserite, delle quali non esistono più i negativi. In generale, il restauro ha mirato a restituire omogeneità fotografica alle scene reintrodotte e a riprodurre il clima visivo, creato dal direttore della fotografia Tonino Delli Colli, degli anni Venti e Trenta e poi degli anni Sessanta.

Un’altra sezione cruciale del festival è stata “I colori del cinema sonoro”, che ha riproposto alcuni tra i film che hanno offerto gli esiti più interessanti sul fronte dell’uso del colore. Tra i titoli di punta, la copia restaurata di Tess (1979) di Roman Polanski, presentata in Piazza Maggiore, così come la versione restaurata da Sony Pictures Entertainment di Lawrence d'Arabia (1962) di David Lean, arricchita di circa venti minuti rispetto all’edizione uscita nelle sale. Sempre il restauro della Sony Pictures ha restituito splendore a Bonjour Tristesse di Otto Preminger (1958), tratto dall’omonimo romanzo breve di Françoise Sagan. Una Parigi tanto affascinante quanto malinconica assiste ai divertissement di un padre, Raymond (David Niven), e di sua figlia diciottenne Cécile (Jean Seberg), tra cene, balli e feste nei locali notturni della Ville Lumière. Non c’è però leggerezza o spensieratezza nei loro gesti, nei loro volti. Cécile si muove tra amici e spasimanti come se indossasse una corazza impenetrabile, impermeabile a qualsiasi sentimento o slancio affettivo. Il padre Raymond, da sempre vanesio e superficiale, affascinante donnaiolo, pare annoiato dalle sue più recenti conquiste. Il disagio che accompagna i due protagonisti trova motivazione nel racconto in prima persona di Cécile, con il quale la giovane donna ricostruisce - attraverso una serie di flashback - gli eventi dell’estate precedente in Riviera, nei pressi di Nizza. Se il presente è cesellato in uno splendido ma algido bianco e nero, il passato prende corpo, esaltandosi, nel formato del CinemaScope e in un cromatismo acceso, dove è il blu a farla da padrone nelle sue diverse tonalità: lo sfavillio del mare in piena estate, il cielo terso, l’azzurro del bikini sotto il sole e di una camicia aperta legata in cintura. E poi ancora i toni accesi degli abiti estivi, la pelle rossa e gonfia per l’eccessiva esposizione al sole, il verde della natura mediterranea che assiste placida alle dinamiche umane.

I colori in Bonjour Tristesse restituiscono sensazioni e umori, connotando la cifra emotiva delle differenti relazioni tra i personaggi. Il rapporto di complicità strettissimo, dagli echi quasi edipici, tra Raymond e Cécile non è messo in pericolo né dalla nuova giovane amante del padre, Elsa (Mylène Demongeot), invitata a trascorrere l’estate con loro nella villa sulla costa, né tanto meno dal flirt estivo di Cécile con Philippe (Geoffrey Horne), figlio della vicina di casa, ma individua un pericoloso ostacolo nell’arrivo della stilista Anne Larson (Deborah Kerr), amica di vecchia data della madre scomparsa della giovane. Quando Anne e il padre si innamorano e decidono di sposarsi, Cécile percepisce immediatamente che Anne non si limiterà a stare accanto all’uomo, ma cercherà di dare una svolta alla sua educazione, limitando una volta per tutte la libertà respirata fino a quel momento. La reazione della ragazza non prevede concessioni o scrupoli, innescando conseguenze indelebili. Bonjour Tristesse offre allo spettatore un intreccio non certo inedito o imprevedibile, ma Preminger cesella un’opera dove le psicologie dei personaggi, e in particolar modo quella della protagonista - la terribile, bellissima, ribelle ed egoista Cécile -, sono delineate con spietata lucidità e dove l’estetica e le scelte cromatiche riescono a veicolare la sensazione di smarrimento e di perdita suscitata dalla presa di coscienza di se stessi, delle proprie colpe e delle proprie responsabilità.

 


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