Al festival di Cannes, oltre al premiato La nostra vita di Daniele Luchetti, a portare alto il nome del nostro belpaese è stato Le quattro volte, documentario presentato con successo alla Quinzaine. Secondo lungometraggio di Michelangelo Frammartino, il film, praticamente privo di dialoghi, è costituito da quattro blocchi narrativi, liberamente ispirati all’idea di Pitagora secondo cui nell’uomo convivono quattro regni: minerale, vegetale, animale, razionale. Il regista tuttavia, lontanissimo dall’esibire un meccanismo a tesi, propone, al contrario, uno sguardo capace di cogliere la fragranza di ciò che “casualmente” mette davanti la macchina da presa.
Il film è un viaggio in quattro tappe, che inizia come fosse un girovagare senza meta per poi rivelarsi, invece, come un chiaro disegno capace non solo di giustificare il proprio percorso, ma pure di parlarci di valori universali quali quelli della vita e della morte. In fondo Frammartino, partendo dalla vicenda di un vecchio pastore, passando per una capretta smarrita, per l’usanza popolare dell’albero della cuccagna, e arrivando infine a raccontare come nasce il carbone, non fa che mettere in connessione, in circuito anulare, l’Uomo con la Natura e la Cultura. E lo fa raccontando il piccolo, il minimale si direbbe, che pure racchiude il grande, l’universale. Così, i primissimi piani di una formica che attraversa il viso rugoso di un uomo, o la corteccia altrettanto grinzosa di un albero secolare, non sono solo inquadrature di una bellezza impagabile, ma sono le prove di un racconto che il regista, pur scegliendo uno sguardo che rivendica la propria oggettività, dirige con grande severità. Ai movimenti lentissimi e radi della macchina da presa, che solamente in apparenza sembra non scegliere cosa mostrare, si affianca, infatti, un montaggio che, antesignanamente, detta il passo e il senso di ciò che sullo schermo prende vita.
Lo si capisce soprattutto con la prima transizione, alla fine del primo blocco e all’inizio del secondo, che segna non solo il passaggio dal buio di un loculo alla luce di un stalla, ma pure il movimento inarrestabile dalla morte di un uomo alla vita di un altro organismo. Senza clamore né derive estetizzanti, Frammartino, passando dalla tumulazione di un uomo al parto di un capra, confeziona un accostamento di un impatto sconvolgente, dimostrando, in questo come in altri momenti, una grande padronanza del mezzo cinematografico. Pur risalendo a soluzioni registiche che si direbbero “primarie”, il regista inventa così un linguaggio insieme arcaico e contemporaneo, capace di filmare la morte di un uomo, come di una pianta. Poco altro si può chiedere ad un regista affinché possa definirsi tale.
TITOLO ORIGINALE: Le quattro volte; REGIA: Michelangelo Frammartino; SCENEGGIATURA: Michelangelo Frammartino; FOTOGRAFIA: Andrea Locatelli; MONTAGGIO: Benni Atria, Maurizio Grillo; MUSICA: Simone Paolo Olivero, Paolo Benvenuti; PRODUZIONE: Italia/Germania/Svizzera; ANNO: 2009; DURATA: 88 min.
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