Il cinema di Jacques Tati PDF 
di Lorenzo De Nicola   

Il 26 e il 27 gennaio di questo anno si è tenuto a Udine un convegno che aveva come oggetto la figura curiosa e affascinante di Jacques Tati, l'indimenticabile comico francese. Jacques Tatischeff nasce vicino a Parigi nel 1908 da madre francese e padre russo. Appassionato di sport, una volta terminato il liceo, fa il suo esordio sulle assi del palcoscenico con spettacoli che trovavano proprio nello sport il loro punto di partenza.

La sua nuova forma di cabaret è prontamente riconosciuta dalla critica e in poco tempo la fama investe il giovane Jacques che ottiene così libero accesso alle migliori sale teatrali di Parigi. È un affermarsi repentino quello di Tati, il quale, nel 1936, guadagna una recensione sulla prestigiosa rivista 'Le journal', che lo segnala come inventore di nuove forme di avanspettacolo.

Ma ciò che distinguerà il regista per tutta la sua vita saranno le sue incredibili intuizioni. Così, ben presto, si rende conto che il palcoscenico è troppo limitato per contenere la sua mimica, e individua nel cinema la nuova piattaforma di lancio per liberare il suo estro. Già dal 1932 Tati si avvicina alla settima arte con il cortometraggio Oscar champion de tennis, un film che lo stesso regista ritiene talmente brutto da lasciarlo incompiuto. Ma questo primo insuccesso non lo scoraggia e, due anni più tardi, interpreta On demande un brute basato su un soggetto scritto da lui stesso e che si avvale della regia di Charles Barrois.

Nel 1935 continua la sua carriera cinematografica con Gai dimanche, nuovamente su una sua sceneggiatura. In questo caso è accompagnato da Rhum, un pagliaccio italiano che aveva riscosso grande successo in Francia, il cui nome d'arte derivava da un suo vizio facilmente intuibile. Rhum lo ritroviamo anche ne I clown (1970), la lunga ricognizione nel mondo circense di Fellini.

Ma bisogna aspettare ancora qualche anno prima che Tati faccia il suo esordio alla regia. Infatti solo nel 1947 avrà l'occasione di dirigere il suo primo cortometraggio, L'ècole de facteurs. Le sventure di un postino impacciato, interpretato dallo stesso regista, faranno il suo successo convincendo il produttore Fred Orain a ripetere subito l'esperimento con un lungometraggio. Nasce così Jour de fète (1947). Ciò che risulta strano è come L'ècole de facteurs e Jour de fète siano praticamente identici. Le gag che avevano divertito nella sua prima esperienza di regia, vengono riprese esattamente e riportate in un contesto più ampio e dilatato. Le disastrose vicende del postino sono inserite nel micro-sistema di una festa di paese e seguite da un ideale spettatore interno alla diegesi incarnato da una piccola e incurvata vecchina accompagnata da una capra. Un universo chiuso e felice dove ogni personaggio occupa una posizione specifica, attraverso la quale viene rispettato e riconosciuto. Anche il bonario schernire operato dagli abitanti del villaggio nei confronti del postino François fa parte di un rituale codificato, che aumenta proprio quella sensazione di equilibrio che governa tutto il film. E sarà proprio questo equilibrio a essere messo in pericolo dai semplici movimenti del portalettere.

La comicità di Tati, che con il primo lungometraggio ha ormai preso forma e una propria autonomia, nasce essenzialmente dalla causa e non dall'effetto. Questa caratteristica, ricorrente in tutta la sua produzione, punta a evidenziare più il gesto antecedente alla gag piuttosto che il suo sviluppo, tanto che a volte addirittura viene celato. È quindi una comicità vicina all'implosione, paradossalmente governata dalla frustrazione dell'eccesso. Dopo Jour de fète una nuova pausa segna la produzione di Tati. Una pausa ingiustificata almeno agli occhi dei produttori, che vedevano nel nuovo personaggio inventato dal comico francese la fonte sicura di ingenti incassi. Ma il regista non cede a compromessi commerciali e - nel timore di sfruttare esageratamente la sua creazione, col conseguente impoverimento che caratterizzano tali operazioni - preferisce aspettare.

Così ritorna nel 1953 con Les vacances de M. Hulot che, portando sullo schermo una nuova macchietta, apre la sua seconda produzione - chiara evoluzione della precedente - dai risvolti tematici più complessi. Una nuova maschera che diventerà il motore dei film successivi. Il buffo postino perde gradualmente i suoi connotati per generare il signor Hulot, cometa e, al tempo stesso, meteorite dell'universo alienato e alienante dei nostri giorni. Il cambiamento voluto da Tati è radicale ed evidente. La funzione comica e vagamente satirica del suo personaggio iniziale lascia spazio a una presa di posizione molto più netta e aggressiva.

La comicità diventa il mezzo tramite cui attaccare i meccanismi di una società postbellica che si è corrotta, che fagocita l'individuo, omologandolo e moltiplicandolo. Non è un caso che del portalettere si conoscesse solo il nome, mentre dello stravagante medio-borghese solo il cognome. Ma questo processo di perdita d'identità è sottolineato da elementi ancora più macroscopici.

La mimica facciale viene omessa attraverso l'utilizzo di campi lunghi (cosa assai stravagante per un mimo del calibro di Tati), così come la comunicazione orale, quasi completamente azzerata. Una ingombrante pipa distorce, se non nega del tutto, l'espressione verbale di Hulot, che d'ora in poi, oltre a sabotare (involontariamente) gli schemi precostituiti che lo circondano, si limita ad osservare (come lo stesso regista dichiarava di fare continuamente) un mondo a lui antitetico. Utilizzando le parole di Giorgio Cremonini, "l'inadeguatezza del postino François si è trasformata nella totale incompatibilità di Hulot".

La parola viene bandita (fino al punto di non voler pronunciare il proprio nome alla reception dell'albergo) perché c'è ben poco da dire in una società dove tutti parlano per convenzione, e non perché si avverta l'effettivo desiderio di farlo. Anzi, i dialoghi diventano rumore, agglomerati di frasi senza senso. E' proprio il rumore, infatti, la risposta repressiva alla protesta silenziosa del nuovo personaggio di Tati; un rumore che oltre a provenire dalle persone, è generato soprattutto dalle cose, da quelle sofisticate macchine emblema del progresso degli anni che seguirono al secondo conflitto mondiale.

L'uomo contemporaneo inventa e crea utensili e dispositivi nella credenza di riuscire a soddisfare il proprio bisogno di una vita più agiata e, in parte, più ricca, ma non si rende conto di rimanere completamente soggiogato proprio da quelle stesse tecnologie. La casa della famiglia Arpel in Mon oncle (1958) è il simbolo di quella modernizzazione esasperata ed esasperante involontariamente contrastata dall'ostentato passatismo del protagonista. Ed è proprio la cura della banda sonora un'ulteriore qualità delle pellicole del comico francese.

Un'attenzione maniacale per il più piccolo dei suoni, con i quali realizza, oltre ai vari "giochi di rumore", anche una calibrata rielaborazione poetica del reale. Il suono perde quindi la sua originaria funzione di commento delle immagini per andare ad occupare spazi strettamente legati ad un'espressione più propriamente simbolica e naïf. Siamo ormai distanti anni luce dall'accogliente e festosa atmosfera che governava il piccolo villaggio del postino François. E la nostalgia è un sentimento che traspare nel silenzio di Hulot.

Il suo combattere contro una modernizzazione esasperata - che in Jour de fète era profetizzata da quella automobile che pretende di attraversare a tutta velocità il paese, e che viene arrestata proprio da François - si manifesterà nei suoi atteggiamenti tanto innocenti e impacciati quanto fastidiosi e dalle conseguenze disastrose. Anche le scenografie hanno accompagnato questo mutamento. Infatti si passa senza soluzione di continuità da quelle stravaganti di Mon oncle a quelle rigide e metalliche di Playtime (1967). E in questi due ultimi film fa irruzione anche il colore, uno sviluppo della tecnica che aveva da sempre ossessionato il regista. Jour de fète è stato girato sia in bianco e nero che a colori, con un procedimento sperimentale (denominato Thomson Color) che si rivelò fallimentare, perché Tati si dovette accontentare di realizzare alcune copie colorando solo certe parti della pellicola.

Così, avutane la possibilità, ecco che nel primo utilizza colori elettrici, mentre nel secondo colori algidi e uniformi. Ormai l'Hulot di Playtime è un uomo completamente alienato a cui viene rubato il ruolo da una civiltà che si muove a ritmi frenetici e in mille direzioni; dove tutto sembra avere un senso anche se in realtà nessuno conosce veramente la propria direzione e preferisce proseguire in circolo nell'irreale rotonda/giostra dell'ingorgo finale. Playtime per il suo carattere profetico non viene capito e risulta accolto freddamente dal pubblico; gli incassi non bastano a coprire le ingenti spese di una produzione che si era protratta per oltre due anni, inseguendo un progetto così ambizioso. Il deficit finanziario costringe Tati ad accettare di dirigere e interpretare Trafic (1971), un ulteriore spaccato della società dei consumi nel quale però si avverte la stanchezza e la mancanza di spontaneità. Sarà questa l'ultima apparizione di Hulot.

L'opera successiva del comico francese è infatti Parade (1974), realizzato per la televisione svedese, nel quale Tati rispolvera tutta l'arte di una vita inscenando uno spettacolo al circo. I suoi ricordi sono carichi di tenerezza e gioia, privi quindi di quella pesantezza e decadenza presenti al contrario nei lavori sullo stesso argomento di Bergman e Fellini. É una dichiarazione d'amore a un mondo che non lo ha mai abbandonato e forse, perché no, è stato quello che lo ha salvato dal diventare come i suoi stessi personaggi.

Jacques Tati muore nel 1983 lasciando incompiuto Confusion, il suo ultimo film con il quale avrebbe seppellito definitivamente il signor Hulot. E con il regista muore anche uno dei comici più satirici, lucidi e, al tempo stesso, visionari della storia del cinema.

 


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