Forza Italia!, ovvero la casta 35 anni fa PDF 
Piervittorio Vitori   

Un film di montaggio che coniugasse informazione e satira: questa l’idea che ebbe nel 1976 Roberto Faenza, giovane regista torinese con alle spalle due titoli (Escalation e H2S) e un periodo di attività negli Stati Uniti. A spalleggiarlo - sotto l’egida della cooperativa Jean Vigo, fondata per l’occasione - due giovani cineasti, Marco Bocca e Marco Tullio Giordana; a curarne la sceneggiatura due giornalisti, Antonio Padellaro de L’Unità e Carlo Rossella di Panorama. Si era all’indomani della tornata elettorale che aveva sancito il netto avvicinamento del Pci alla Dc, il momento in cui sembrava dovesse concretizzarsi quel ‘compromesso storico’ vaticinato anni prima da Enrico Berlinguer. Se pure non si sarebbero poi realizzate in ambito strettamente politico, le ‘convergenze parallele’ si riscontrarono nelle reazioni che entrambi gli schieramenti, almeno attraverso i loro organi ufficiali, riservarono alla pellicola al momento della sua uscita, nel gennaio 1978: lo sberleffo nei confronti di 30 anni di potere democristiano, messo a fuoco rivolgendo l’attenzione (e l’obbiettivo) sia ai politici stessi sia all’Italietta che questi avevano plasmato nel dopoguerra, fu accolta in maniera ferocemente ostile non solo nel campo dello scudo crociato, ma anche in quello comunista. Di contro, il film registrò un clamoroso successo di pubblico, destinato però a rivelarsi tragicamente effimero: il rapimento di Aldo Moro, nel marzo di quell’anno, segnò la fine di quella stagione politica e, insieme, quella della vita in sala della pellicola, prontamente ritirata dagli esercenti. Pure, a distanza di tempo, proprio dal memoriale del leader di Piazza del Gesù sarebbe scaturita una sorta di postuma - ed assai amara - rivalutazione della pellicola: infatti proprio Moro, si scoprì, aveva stigmatizzato nelle pagine redatte durante la prigionia la spregiudicatezza dei suoi compagni di partito, così come essa emergeva dalla sequenza del congresso che chiude il film.

Rivedere Forza Italia! 35 anni dopo la sua realizzazione, o a maggior ragione scoprirlo (per chi non era ancora nato all’epoca dei fatti e dei personaggi narrati), è un’esperienza che può risultare particolarmente straniante, data la compresenza di elementi formali che ne fanno un’opera oggi inevitabilmente datata e di altri che evidenziano comunque dei tratti di modernità. Nella prima direzione va soprattutto il lavoro svolto in sede di doppiaggio, tra testi di cinegiornali e telegiornali ri-registrati dagli autori e frasi create ad hoc e messe in bocca alla folla e ai politici. Ma se nella prima circostanza si può parlare quasi di un’operazione di ‘restauro’, nell’altro la falsificazione del dato documentario è evidente, risultando all’origine di molte critiche. L’originalità e la forza di un simile espediente, tuttavia, risulta oggi talmente stemperata da far quasi sorridere: quello che fu forse il maggior debito nei confronti della satira politica che si esercitava all’epoca su riviste quali Il Male (la battuta di dialogo ideata dagli autori che assolve alla funzione della didascalia di una vignetta) è divenuto con gli anni moneta corrente in una cornice televisiva sicuramente meno corrosiva (si pensi a Striscia la notizia). Il dato di modernità, all’opposto, attiene invece all’ambito del montaggio, soprattutto laddove si consideri come l’operazione attuata nel film di Faenza non abbia poi avuto epigoni di rilievo nella successiva produzione satirica. O meglio, non li abbia avuti al cinema, giacché è difficile non collegare le dinamiche di produzione del senso sviluppate nella pellicola a quelle rese poi celebri sul piccolo schermo dal Blob di Ghezzi e Giusti. Ma qui sta il paradosso che costituisce forse il maggior punto di forza, a livello formale, di Forza Italia!: si parte da materiale televisivo (recuperato dagli archivi della Rai ma anche da quelli di network stranieri) che viene assemblato con criteri che oggi associamo a uno specifico anch’esso televisivo per giungere a un risultato che, nonostante ciò, appare decisamente cinematografico. Il merito di questa riuscita è in buona parte di Silvano Agosti: attraverso il solo processo di selezione e giustapposizione delle immagini (quindi facendo a meno del commento over che caratterizzava un precedente per altri versi analogo come All’armi, siam fascisti!), il montatore riesce a conferire al lavoro un respiro che va ben al di là di quella che altrimenti avrebbe rischiato di essere poco più di una mera compilation di bozzetti. A partire da uno strategemma che oggi potremmo considerare “facile” come quello della struttura circolare (il film si apre e si chiude sul primo piano di Leone e sul congresso della Dc, costruendo il proprio corpo come un lungo flashback), si dà una forma narrativamente compiuta.

Scrisse all’epoca Natalia Ginzburg su La Stampa: “Alcuni di questi protagonisti del potere, li abbiamo trovati rassomiglianti a dromedari grandi e tristi, altri a piccoli cani festosi e ringhiosi, altri a tartarughe. Ci domandiamo se preferiamo i dromedari ai cagnetti, e prontamente decidiamo che di gran lunga preferiamo i dromedari, perché sono malinconici, e la malinconia ci sembra meglio di un vano, rabbioso e giubilante abbaiare” (1). L’analisi delle fisionomie e il loro accostamento a un modo d’agire o ai sentimenti che esse ispirano paiono potersi ricollegare facilmente alla dimensione antropologica già evocata dalle parole di Moro. Una dimensione la cui lettura - accessibile per ovvi motivi a chi fu protagonista o anche solo testimone di quei tempi - è resa possibile allo spettatore d’oggi proprio dalla struttura della pellicola, nella quale la successione cronologica degli eventi va di pari passo con la definizione dei rapporti tra i soggetti in campo. La prima parte del film vede le figure dei notabili Dc relativamente ai margini della narrazione, che preferisce viceversa chiamarli in causa in maniera più indiretta attraverso la descrizione del Paese. Sono le sequenze in cui è maggiormente apprezzabile la sottigliezza del montaggio, capace di allineare le diverse componenti sociali (mondo dello spettacolo, forze dell’ordine, apparato religioso, realtà carceraria, ecc.) passando scorrevolmente dall’una all’altra e, al contempo, badando sempre a sottolineare la relazione funzionale che con esse intreccia il potere democristiano. Ecco come l’esibizione del ‘corpo’ italiano, da parte della televisione, viene finalizzato al discorso politico: dalle ‘pietose’ immagini degli infermi accompagnati al seggio nel 1948 alla salute incarnata dalle partecipanti a Miss Italia. Nel mezzo, figure femminili poco più che infantili o prepuberali (la piccola veggente e l’immagine di Maria Goretti) a rappresentare l’innocenza e a far da contraltare occidentale al demoniaco regime sovietico (la mostra sugli orrori d’oltrecortina).

Poi, iniziando dall’epifania politica di Fanfani posta a metà film, gli esponenti dello scudocrociato invadono in maniera più evidente lo schermo, e proprio la biografia agiografica e televisiva del Presidente del Consiglio pare fornire una nuova e maggiore legittimazione in senso spettacolare e sociale (quindi nazional-popolare) alla figura del politico. Un riflesso della nuova consapevolezza maturata dagli onorevoli si ha poco dopo, nella scena che il montaggio rende forse il momento più agghiacciante del film: quella della conferenza stampa di Rumor dopo la tragedia del Vajont. La disinvoltura e la spudoratezza del segretario democristiano relegano d’un tratto la secchezza retorica e gestuale di De Gasperi, messa in campo in precedenza, all’archeologia della comunicazione politica. È il segno che è in atto un cambiamento, una riduzione della distanza tra i cittadini e i loro rappresentanti, apparentemente confermata dal climax costituito nel finale dalla contestazione che va in scena durante il congresso. Scrivo “apparentemente” perché si tratta di un cambiamento che investe più l’immagine che la sostanza, ed è esemplare in questo senso appunto la scelta delle immagini che contraddistingue tutta la pellicola: i notabili Dc non sono quasi mai inquadrati in mezzo alla gente, e anzi il frequente ricorso ai primi piani aiuta ad isolarli dal contesto e a favorire la citata lettura antropologica. La selezione del materiale e il montaggio concorrono dunque a creare l’idea di una frattura sociale, evidente grazie anche alle dinamiche dell'ellisse e del campo/controcampo (si consideri la sequenza della visita di Andreotti a Cinecittà, in cui il politico non viene mai colto insieme alle star hollywoodiane). La distanza si estremizza fino a divenire contrapposizione netta e scontro nella scena del ricevimento, “davvero degno di René Clair” (2), organizzato per Nixon al Quirinale. La contestazione, dunque, e con essa ogni traccia di alterità rispetto alle figure del potere, non si vede: nella migliore delle ipotesi ci si deve limitare a sentirla. Sembra fare eccezione, come detto, la chiusura sul congresso, quando pare che proprio un’esigenza cinematografico-drammaturgica porti a mettere in campo anche la controparte. Ma l’illusione che all’ingresso in scena di un diverso soggetto - comunque relegato al ruolo di attore collettivo, magmatico, indistinto - possa corrispondere un’effettiva mutazione nella chimica sociale è di breve durata. I ‘volti nuovi’ che usciranno dal conclave democristiano saranno gli stessi di prima, all’insegna del perpetuarsi di quella che oggi - e in questo il film potrebbe definirsi profetico - abbiamo imparato a definire casta.

Note:
(1) N. Ginzburg, La Dc può far ridere?, da La Stampa, 31/01/1978, cit. in R. Faenza, Forza Italia!, Milano, Rizzoli 2006, p. 139.
(2) Ugo Casiraghi, cit. in P. Mereghetti, La rivolta delle immagini, in R. Faenza, op.cit.

 


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