Io non sono qui: l’identità e altri enigmi PDF 
Enrico Maria Artale   
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Io non sono qui: l’identità e altri enigmi
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ImageLa sperimentazione cinematografica può riconquistare una dignità pubblica se riconosce la costitutiva relatività delle proprie innovazioni, riuscendo così a svincolarsi da una coercitiva pretesa di originalità che potrebbe soltanto banalizzarne gli esiti. Una sperimentazione per così dire disillusa è auspicabile come istanza in grado di liberare la tecnica dal tecnicismo, che affligge gravemente gran parte dei registi aspiranti innovatori giustificando parzialmente gli affondi della critica conservatrice, ed emancipare il formalismo improntando la tecnica stessa ad un rigore estremo, o ad un estrema libertà. Potremmo ascrivere a questo secondo desiderio formale, introducendolo così attraverso un chiaro elogio, il regista Todd Haynes: americano, quarantasette anni, una filmografia di tutto rispetto. Ed è proprio il suo ultimo film, Io non sono qui, a confermare a pieno titolo il valore della sua figura di sperimentatore acuto e talentuoso. Di fronte all’impossibilità di sfuggire al clichè, o anche soltanto di poter dire qualcosa di nuovo, la pratica sperimentale non deve arrestarsi, trovando invece la giustificazione determinante del suo operare. È quanto accade giustamente nel film su Bob Dylan, per la cui visione andrebbe raccomandata la definizione di Rick Moody, uno dei tanti scrittori americani che citeremo in questo articolo: “l’idea modernista che tutto è possibile, l’idea post-moderna che tutto è stato già detto, l’idea post-postmoderna chedato che tutto è stato già detto, tutto è possibile” (1). Quest’ultima idea costituisce a nostro avviso una sorta di premessa concettuale del film.Image

La biografia cinematografica, il cosiddetto biopic, ha conosciuto negli ultimi quindici anni una notevole proliferazione di soggetti, più o meno dettati dall’industria, tale da rendere inadeguata la denominazione di sottogenere, con cui spesso lo si indicava. Certo, dentro questo orizzonte di crescente produzione la maggior parte dei lavori si segnala, a dir la verità, più per la volgarità e la superficialità dei ritratti che disegna, per la propensione per il falso e per il romanzato a discapito di un interesse conoscitivo, per l’assoluta e deprimente aderenza ai luoghi comuni cari al pubblico per identificare il personaggio in questione. Quando invece ci si trova di fronte a pellicole di maggior spessore, che tendono spesso ad utilizzare il personaggio anche come pretesto per un discorso più ampio, è bene riconoscere una encomiabile sobrietà stilistica, quasi a voler mantenere le potenzialità del film entro i canoni dell’obiettività per restare il più possibile fedeli al soggetto. Non è questo il caso di Haynes, che nel suo film dedicato a Dylan riprende, sviluppa e modifica le peculiarità di Velvet Goldmine (1998) per tornare a comporre un grande ritratto attraverso vie poco convenzionali. Un ritratto. In effetti, quando la critica cinematografica (ma anche letteraria) adopera espressioni rubate alla pittura è solita riferire il ritratto ad un film incentrato su un individuo e l’“affresco” ad un opera dal respiro corale (quale locuzione più abusata e svilita de “l’affresco di un epoca”?). Scrollandosi di dosso il timore reverenziale nei confronti del cantautore più famoso al mondo, e fidandosi ben poco di qualunque pretesa di obiettività rispetto all’esistenza soggettiva, il regista ha per così dire tentato, passando necessariamente attraverso una spericolata frammentazione, di dipingere “l’affresco di una vita”, cogliendo la coralità e il pluralismo all’interno del singolo. Ciò ha portato, ed è sotto gli occhi di tutti, ad un virtuosismo manifesto, provocatorio. Ma questo rifiuto dell’estetica minimalista non mette capo ad una sterile dimostrazione di stile, ad un massimalismo compiaciuto ed autoreferenziale, ad una mancanza di rispetto nei confronti di Dylan. Anzi, è proprio in nome di un diverso rispetto per il soggetto che si configura il virtuosismo filmico, che possiamo definire, parafrasando John Barth, uno dei maggiori esponenti della letteratura massimalista del dopoguerra, un “virtuosismo appassionato”. Vediamo di capire come si articola concretamente. L’elemento più immediatamente riconoscibile all’interno dello sperimentalismo complessivo è senza dubbio quello che possiamo indicare come “il sistema dei personaggi”, ossia la scelta da parte di Haynes di far interpretare lo stesso Dylan a sei attori diversi (il numero ha un sapore chiaramente pirandelliano, difficile stabilire se ciò sia voluto). Sei attori interpretano la biografia del cantautore. Prendiamo al momento per buona questa affermazione, vedremo in seguito cosa le sfugge. Mantenendoci su questo livello interpretativo possiamo sostenere che le differenti figure che compongono il Dylan di Haynes corrispondono ad altrettanti momenti della sua vita. Certo dobbiamo subito riconoscere una estrema libertà al procedimento, se in certi casi può trattarsi di un ragazzino di colore o di un anziano cowboy di fine Ottocento. Dunque non si può parlare facilmente di rappresentazione, a meno che non si voglia intendere una struttura simbolica sostitutiva, qualcosa che rendendosi visibile indica o ricorda qualcos’altro. Non è però indagando questo nesso che possiamo chiarificare l’intera operazione. È chiaro a chiunque, e fin da subito, che il richiamo è indiretto: ognuno dei personaggi è abbastanza diverso dagli altri da escludere l’ipotesi che uno sia, ad esempio, l’invecchiamento cinematografico dell’altro: ognuno porta un proprio nome, e, ovviamente, nessuno porta il nome di Dylan. Ma Bob Dylan è uno pseudonimo, lo pseudonimo di Robert Allen Zimmermann. Non solo: lo stesso Robert Allen Zimmermann ha usato nella sua vita almeno una dozzina di pseudonimi diversi. Ecco che comincia a delinearsi una prima ragione di questa scelta virtuosistica: il “mostruoso” e assolutamente reale trasformismo dello stesso Dylan. Certo, i nomi dei personaggi del film non fanno parte della lista degli pseudonimi usati dall’artista: se la struttura rappresentativa è indiretta lo è per tutti, non siamo di fronte ad un film destinato ai fan incalliti, come molti giornali hanno stupidamente scritto tralasciando anche alcune semplici dichiarazioni del regista a proposito. Va da sé che gli esperti in materia coglieranno più facilmente qualche riferimento seminascosto: ciò, tuttavia, non gli gioverà alla comprensione. Image

Il trasformismo dunque, la singolare dote dylaniana di rivoluzionarsi intimamente: da ragazzino povero, fanatico ammiratore dei cantanti folk, al giovane autore di testi politicamente impegnati, da poeta bohemienne a rockstar internazionale osannata e discussa, da profeta neoconvertito al cristianesimo a uomo solitario e disilluso. La scelta di narrare la vita del cantautore attraverso non solo sei attori, ma sei differenti personaggi, con tutte le difficoltà di comprensione che ciò implica, appare pienamente giustificata dalla storia stessa, dal soggetto, dall’uomo. Dylan ha saputo evitare qualunque ipostatizzazione della sua figura, riluttante ad ogni atteggiamento feticista proveniente dai suoi fan, ma forse al tempo stesso consapevole di quell’ineludibile carattere di feticcio che avvolge ad oggi qualsiasi manifestazione del mondo culturale, egli è per così dire trasmutato di feticcio in feticcio senza offrire al pubblico alcunché di stabile, né valori fissi, contenuti, punti di riferimento, né forme immutabili, look, sonorità, atteggiamenti. Così nel film, ogniqualvolta un personaggio arriva ad un punto morto, ad una situazione senza uscita o senza sviluppi interessanti, la narrazione si sposta su di un altro personaggio. Si potrebbe dire, forti della visione del film, che egli ha diversi volti, o meglio che egli non ha alcun volto, ma soltanto maschere: la sua identità si è costruita percorrendo la falsità delle sue manifestazioni, nel passaggio da una finzione all’altra risiede, per così dire, la sua verità. In questo senso egli può sembrare una concretizzazione dell’uomo profetizzato e auspicato da Nietzsche, dotato di infinte maschere e privo di un volto da nascondere. E allora quale migliore soluzione formale escogitare per mettere in scena un individuo del genere se non quella di negarne l’individualità, lo statuto di singolo?Image

Il discorso filmico sull’identità elaborato da Haynes in Io non sono qui non si limita tuttavia a tradurre il trasformismo del cantautore. O meglio, questo, per quanto di per sé potesse rappresentare una ragione sufficiente alla scelta del regista, all’idea formale, non costituisce l’unica ragione. Come sempre, in un’opera acuta e complessa come questa, i livelli di lettura e le possibilità interpretative sono molteplici. Sarà quindi il caso di ritornare sul problema in seguito, quando il nostro discorso si sarà ampliato ed arricchito. In questo momento è bene soffermarsi sul legame, meravigliosamente intrinseco, che unisce il film alla figura di Dylan. Si tratta di un legame duplice: se fino ad ora abbiamo insistito sul nesso tra la mutevole personalità dell’artista e la scelta dei sei personaggi, è bene ora spostare l’attenzione sulla libertà immaginifica del film, che trova il suo adeguato corrispondente nel linguaggio poetico adottato da Dylan. Nei testi delle canzoni, infatti, escludendo forse la prima fase della sua produzione, quella più esplicitamente impegnata, osserviamo come le immagini evocate dalle parole si susseguono in associazioni libere e impreviste, suggerendo le più svariate interpretazioni, rendendo la comprensione completa assai ardua e instabile, se non addirittura impossibile. Il che ovviamente non va a detrimento di Dylan, ponendolo invece in una sfera linguistica più vicina alla poesia, per quanto una totale equiparazione ad essa significherebbe una confusionaria perdita della distinzione tra letteratura e canzone (in questo senso appare perfettamente sensata la scelta, peraltro avallata anche da ammiratori storici di Dylan come De Gregori, di non assegnare il premio Nobel al cantautore americano, almeno fino alla data odierna). I testi dylaniani, dunque, al pari di quelli firmati da un altro straordinario cantautore nordamericano, Leonard Cohen, possono risultare assai enigmatici, pur essendo al tempo stesso fortemente comunicativi, o ancor meglio decisamente evocativi. Può sfuggire il senso, ma restano sensazioni ed emozioni, visioni ed immagini il cui potere è alimentato dalla musicalità dei suoni e dalla voce. Nel tentativo di mantenersi il più possibile fedele nello spirito, il film di Haynes si assume la libertà di inserire immagini la cui presenza non è direttamente giustificata dalla storia, di lasciarsi andare a lunghe divagazioni, sviluppando all’interno e attraverso le storie dei personaggi/o una sorta di interminabile poema visivo, in cui trovano posto le suggestioni più diverse, spesso rubate alle canzoni stesse ma senza alcun didascalismo.


 


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