"Piacere a tutti significa piacere a nessuno", diceva un certo Oscar Wilde. Sembra essere d'accordo con il celebre aforisma anche Tim Burton, cineasta originale e anticonformista, che ha fatto della diversità il tema fondante della sua poetica. "Sono così poco abituato a ricevere lodi e incassare soldi al botteghino che quando succede mi viene da chiedere: dove ho sbagliato?", ha dichiarato.
Cosa c'entra allora Burton con una favola edulcorata come La fabbrica di cioccolato - remake del film del '71 tratto dal romanzo di Roald Dahl -, il film che passa in tivù a ogni Natale (e non solo)? La storia, notissima, è quella del piccolo Charlie, affascinato dalla fabbrica del misterioso Willy Wonka, che riuscirà a visitare insieme ad altri quattro fortunati (e orribili) bambini grazie a un biglietto d'oro trovato nelle tavolette di cioccolato. Niente paura, il Burton che conosciamo c'è, eccome. Giocoso com'è, si diverte mettendo in scena un film che per tutta la prima parte rimane piuttosto fedele all'originale, seppur con divertenti digressioni. Ma man mano che ci addentriamo nella fabbrica le deliranti sorprese cominciano a susseguirsi dietro ogni angolo, come in ogni tunnel dell'amore (o dell'orrore, fate voi) che si rispetti, com'era il suo Big Fish.
L'essenza di Tim Burton è però tutta nel flashback edipico che sposta il punto di vista del film: più che il piccolo Charlie, che era al centro dell'originale, a Burton interessa (e non poteva essere altrimenti) il tormentato Willy Wonka. Mentre ricorda la sua infanzia capiamo finalmente tutto: anche Willy era un bambino infelice e diverso dagli altri, per colpa del padre dentista che lo costringeva a portare un terribile apparecchio per i denti che gli incorniciava tutto il viso, rendendolo una creatura di carne e metallo come Edward mani di forbice (a proposito: anche in una favola come questa non poteva mancare la neve!). E lo teneva soprattutto lontano dagli amati dolci. Ecco che Willy Wonka altri non è se non l'ennesimo freak burtoniano, diverso dagli altri e perciò emarginato. Un diverso come Ed Wood, come il Pinguino di Batman Returns, come l'uomo caduto su Il pianeta delle scimmie. Un diverso che però non rinuncia ad essere se stesso, alle proprie inclinazioni, fino a fare della sua passione un successo e diventare un famoso cioccolatiere. Un outsider: guardate come fa il suo ingresso in scena, di lato ai bambini, mentre tutti si aspettano di vederlo sul trono. Un trono che rimane vuoto.
Alter ego dichiarato di Burton, Johnny Depp tratteggia un Wonka impareggiabile, dalla mimica facciale capace di mille sfumature. Secondo alcuni ricorda Michael Jackson; in realtà la sua è una personalissima interpretazione del clown, il cui sorriso amaro nasconde ben altro. Ma c'è un altro tratto distintivo di Burton in Wonka: non si sforza di piacere a chi non gli piace, cioè a quasi tutti i bambini (che rappresentano i vizi peggiori del nostro tempo: ingordigia, arrivismo, presunzione, telecrazia), anzi si compiace nel trattarli male, nel dire di no quando è necessario (godetevi i siparietti con cui i suoi assistenti irridono i mocciosi eliminati, tra Bubsy Berkeley, Esther Williams, rock anni 70 e una geniale citazione di 2001: Odissea nello spazio). Una rarità in un tempo in cui tutti (tv, giornali, partiti, artisti) si sforzano di piacere a chiunque. Finendo per piacere a nessuno, appunto. Ma questo a Burton non è mai interessato. Per questo piace a noi.
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