Sydney PDF 
Enrico Maria Artale   

ImageQuando un giovane regista arriva a dirigere cinque pellicole di notevole interesse in poco più di dieci anni non soltanto risulta difficile continuare a definirlo un autore “emergente”, ma si sente la necessità di inaugurare un punto di vista ampio e sintetico sulla sua filmografia, tornando con nuovi spunti e nuovi strumenti alle opere degli esordi. Non si tratta di un compito semplicissimo, perché Paul Thomas Anderson si è ripetuto ben poco, e questo, si intenda, è uno dei suoi meriti maggiori. Certo non sono affatto infondate le accuse che talora gli sono state rivolte, su tutte la dipendenza eccessiva da certi modelli cinematografici, da Altman, per essere più espliciti. Ma già chi aveva visto Ubriaco d’amore si era accorto che Anderson aveva le doti sufficienti per allontanarsi progressivamente dai suoi riferimenti, un’impressione che la visione de Il petroliere non può che aver corroborato. Dunque sono proprio questi due film, nel loro evidente segnale di discontinuità rispetto al passato, a rendere complessa l’individuazione della specifica poetica di Anderson. Il deciso cambiamento di tono, di atmosfere e di ambientazione, rispetto ad esempio ai due lavori precedenti, Boogie Nights e Magnolia, nasconde quei legami sotterranei che solo in parte si esplicitano in analogie tra personaggi, in tematiche ricorrenti, o in modo più visibile, in scelte registiche ben precise. Eppure già in Sydney, primo film del giovane cineasta americano, si può rintracciare la genesi di alcune caratteristiche della sua produzione successiva. Un debutto in sordina, un film che probabilmente sarà ricordato soltanto in virtù dei lavori seguenti, ma che merita di essere riscoperto e compreso, anche in relazione all’intera filmografia di Anderson.

Sydney uscì nel 1997, quando il suo autore aveva 26 anni. Logicamente un regista così giovane fatica a liberarsi dei suoi modelli, a metabolizzare le influenze dei cineasti che lo hanno segnato. Non sono più immaginabili figure alla Orson Welles, non tanto perché il genio è raro, quanto perché lo stato di sviluppo del cinema attuale non è paragonabile a quello degli anni Quaranta. Se si considera anche che la generazione di autori come Anderson è quella cresciuta con il video e con l’enorme incremento di fruibilità del cinema, è facile comprendere come l’idea di un esordio assolutamente personale ed emancipato non può essere più un criterio di giudizio realistico. Non solo, il debutto di Anderson arriva non molto dopo l’esplosione del cinema postmoderno, con tutto il suo gusto cinefilo e manierista per la citazione ed il pastiche: fin dall’esordio, probabilmente con consapevolezza, il regista prende le distanze da questo filone, o meglio, lo assimila ma cerca di indirizzarlo verso qualcos’altro, di farlo interagire o collidere con altri elementi. Fa in poche parole ciò che ci si dovrebbe aspettare da un esordiente americano, entrando in un rapporto personale con la tradizione. Per molti versi, infatti, Sydney dimostra alcuni legami importanti con il cinema di Quentin Tarantino, vale a dire con quell’autore che nella prima metà degli anni Novanta ha rappresentato forse la massima novità del cinema americano, anche in senso commerciale ovviamente. L’ambientazione gangsteristica può ricordare Jackie Brown, sfiorando il grottesco senza addentrarvisi pienamente come fanno, ad esempio, i fratelli Coen. Non può essere un caso, del resto, che un attore simbolo del cinema di Tarantino come Samuel L. Jackson interpreti in Sydney un personaggio perfettamente in linea con quelli che lo hanno reso famoso. Tuttavia, Anderson raffredda duramente il materiale eliminando la presenza caratteristica del trash, e il gusto tutto postmoderno per la commistione che ne deriva, per richiamarsi invece a modelli più alti: innanzitutto il cinema americano degli anni Settanta, con la sua capacità di rivisitare in chiave critica il genere noir. Si pensi, in tal senso, ad autori come Altman o come Arthur Penn, che radicalizzano i tratti nichilisti e autodistruttivi della figura tradizionalmente romantica del perdente.

ImageAllo stesso tempo però in Sydney, come del resto in alcuni film successivi, è ben presente un recupero del classicismo degli anni Quaranta, la stagione d’oro del noir. L’eleganza costitutiva del protagonista, la sua malinconia inguaribile, ricordano alcuni personaggi interpretati da Bogart. Si tratta di una cifra forse essenziale della poetica di Anderson questa intenzione di coniugare in uno stile omogeneo, privo degli scarti costitutivi del postmoderno, elementi presi da almeno tre periodi differenti del cinema americano. Quello più vicino a lui, rappresentato dalle ambientazioni piuttosto inconsuete, che già caratterizzavano i primi film di Gus Van Sant o quelli di Tarantino; quello, determinante degli anni Settanta, attraverso la volontà di demistificare e mostrare il lato negativo di tutti i personaggi (un’istanza che anima profondamente anche l’ultimo lavoro), anche e soprattutto in film dal forte respiro corale; e, infine, il periodo classico, del quale Anderson riprende l’eleganza formale e i ritmi della narrazione. Proprio quest’ultimo elemento sembra particolarmente degno di nota. In un momento in cui il cinema di montaggio sta forse abusando della sua capacità di interrompere a proprio piacimento la narrazione cronologica, spesso senza alcuna ragione se non quella di confondere lo spettatore, il regista statunitense sembra voler recuperare un gusto per la narrazione che non solo appartiene al cinema classico, ma che deriva dalle peculiarità della letteratura americana. Se questo nesso diviene assolutamente manifesto in There Will Be Blood, anche in virtù dell’ambientazione ottocentesca, non è affatto estraneo a Sydney e agli altri lavori dell’autore, estrinsecato in due aspetti fondamentali: l’estrema cura dei personaggi, a livello di sceneggiatura, e, in fase di ripresa, il costante ricorso al piano sequenza. E non soltanto ad un piano sequenza tecnicamente vertiginoso, sullo stile di un De Palma, quanto ad un piano sequenza reso necessario dalla volontà di sfuggire al decoupage classico, al montaggio delle inquadrature parziali, preferendo molto spesso i campi lunghi anche nelle inquadrature di dialogo. Dei due tipi di lavoro, in Sydney, trova maggiore concretizzazione il primo, perché la consapevolezza del potere reale del piano sequenza maturerà in Anderson, presumibilmente, proprio attraverso la sua prima esperienza. Non è un caso che il film d’esordio non sia lungo quanto i successivi, in cui la gestione dei tempi muta in relazione alla maggior lunghezza delle inquadrature e alla netta diminuzione degli stacchi. Ciononostante si ha comunque la sensazione che il film finisca in maniera affrettata, e che probabilmente avrebbe beneficiato di una buona mezz’ora in più, per scavare più a fondo nel passato dei personaggi. Forse le ragioni di questa mancanza sono in gran parte produttive (sembra difficile ipotizzare che un regista di 26 anni riesca ad avere risorse sufficienti per girare un film di più di due ore, un film che richiede un certo genere di spese). In un certo senso dunque, malgrado i tempi di montaggio di Sydney non siano particolarmente lenti, l’andamento narrativo istintivamente adottato da Anderson già in fase di sceneggiatura richiede uno spazio ampio per potersi esprimere appieno, proprio perché si tratta sempre, in un certo senso, di una grande narrazione. Soltanto Ubriaco d’amore sembra essere in questo un’eccezione alla regola, per quanto lì entrino in gioco delle cellule in cui la narrazione minima gode di un tempo atto allo sviluppo senza dubbio maggiore di quanto la maggior parte dei giovani registi americani sarebbe portata a concedere.

ImageIn Sydney non ritroviamo esclusivamente le cifre stilistiche dell’autore, seppur in una forma appena sviluppata, ma anche alcune tematiche che di film in film si sono imposte come ricorrenti. Si tratta di ricorrenze non sempre lampanti, magari a causa delle diverse ambientazioni, ma la loro individuazione non richiede neanche una lettura singolarmente acuta, né tantomeno un’interpretazione forzosa di certi elementi. Innanzitutto, nel corso della sua filmografia, Anderson ha dimostrato il suo interesse per alcune attività che da sempre possiedono un ruolo fondamentale nella società americana, e ovviamente in quella occidentale in genere. Attività che un moralista, e i suoi film sono pieni di moralisti, potrebbe considerare diaboliche, e che invece il regista cerca di descrivere senza pregiudizi o prospettive precostituite. Se in Sydney si tratta del gioco d’azzardo, in Boogie Nights sarà il sesso, in chiave industriale ovviamente, e in There Will Be Blood, invece, gli affari, il commercio, la conquista economica. Lo sguardo non è sempre lo stesso, ma si costituisce comunque a partire da un disincanto di fondo, tale per cui non si esprime né una condanna formulata sulla base di principi morali, né d’altra parte una celebrazione, dal momento che si arriva sempre a constatare la solitudine del protagonista, una solitudine non eroica ma perlopiù mediocre. In questo contesto ricorrente di rovina individuale appaiono spesso dei presunti salvatori, se non addirittura redentori. Si tratta forse delle figure più caratteristiche di Anderson, attorno alle quali ruota il nucleo contenutistico più personale del suo cinema. Mancano infatti, o non hanno importanza, i padri biologici. Al contrario vi è una costante presenza di figure paterne, e, reciprocamente, di figli putativi. Inoltre vi sono più di un esempio di predicatori, per quanto di genere assai diverso. Tutte le figure paterne e i predicatori sono accomunati dalla loro vocazione ad essere dei salvatori. In Sydney questa dinamica è addirittura, con semplicità assoluta, il punto di partenza della vicenda. Ma come figure paterne questi personaggi risultano senza dubbio fallimentari, proprio perché la loro presunzione salvifica nasconde sempre un’ambiguità, sia essa relativa al passato, ai doppi fini, o ai metodi dell’aiuto offerto al prossimo. Nel personaggio interpretato da Philip Baker Hall i doppi fini sono assenti, ma l’ambiguità è massima. Egli aiuterà il suo giovane amico, ma non gli rivelerà di essere l’assassino di suo padre, la sola e unica giustificazione di tutto il suo altruismo. Non solo, per evitare questa rivelazione Sydney tornerà ad uccidere, facendo leva sulla sua abitudine a nascondere il sangue sotto il vestito buono (efficace, anche se un po’ didascalica, l’ultima inquadratura).

ImageQuesta critica programmatica delle figure paterne costituisce l’assoluta antireligiosità del cinema di Anderson, che il finale di There Will Be Blood sancisce in modo inappellabile, laddove più che al fallimento si arriva al consapevole rifiuto del figlio quale forma più estrema e radicale di rifiuto totalizzante del mondo. Così, pur senza raggiungere le tinte fosche e impressionanti dell’ultimo film, il lavoro d’esordio vi risulta legato nelle conclusioni, forse più di quanto lo siano tutti gli altri. La violenza e il sangue (non il male, che è tale solo sulla base di una prospettiva morale compresa nel film, ma non coincidente con quella del suo autore) sono conseguenze necessarie dell’agire umano, ed è il delitto, non la pena, a mettere fine alle vicende. L’ultima battuta dell’ultimo film, “I’m finished”, non indica dunque la rovina di sé, ma la consapevolezza di aver terminato il proprio compito, e il titolo, There Will Be Blood, suona più come una promessa che come una minaccia. Una promessa che già il primo film di Paul Thomas Anderson, Sydney, manteneva puntualmente.

TITOLO ORIGINALE: Hard Eight; REGIA: Paul Thomas Anderson; SCENEGGIATURA: Paul Thomas Anderson; FOTOGRAFIA: Robert Elswit; MONTAGGIO: Barbara Tulliver; MUSICA: Jon Brion, Michael Penn; PRODUZIONE: USA; ANNO: 1996; DURATA: 101 min.

 


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