The act of seeing with one's own eyes: il gesto dello sguardo in Julian Schnabel PDF 
Umberto Ledda   

ImageLe opere di Julian Schnabel, pittore, sono per lo più incentrate sulla figura umana, e appaiono come una prosecuzione di tutta l'arte della sofferenza e del dolore del Novecento, una riduzione alla matrice astratta dei gesti inconsulti e feroci di Ensor, Schiele, Bacon (per quanto sembri ovvia anche un'influenza da Chagall, che contagiato da tutto questo orrore vede il suo malinconico onirismo farsi inquietante). Colori putrefatti, matericità vischiosa e aggressiva nella resa tattile, generale sensazione di morte, costante riferimento notturno. Una pittura umida e sgradevole, un'arte esplicitamente neoespressionista, legata all'urgenza sporca e non raffinata, una pittura rude che ha l'intensità e l'intenzione di uno sputo, avversa al logos, che cerca una comunicazione quasi artaudiana che passi attraverso i canali fisici, nervosi, invece che attraverso processi razionali. L'arte di chi si ferisce le dita mentre dipinge, e dove l'opera d'arte sta soprattutto nel gesto del ferirsi.

Difficile associare l'autore di materiale così viscerale (per quanto scaltro nel riaggiornamento dei codici delle avanguardie) alla figura del regista di cinema narrativo cui Schnabel ha associato la sua persona negli ultimi anni. Una difficoltà da cui emerge con chiarezza la complicazione della quadratura del cerchio fra un'arte che è legata alla gestualità del suo farsi, almeno dal secondo Ottocento, quando fu liberata dal dovere della rappresentazione della realtà dopo l'avvento del medium fotografico, e una, il cinema, che è comunque struttura, quindi una forma della razionalità mediata. Storicamente, sono stati molti i tentativi di ibridare i due medium: prima con il cinema sperimentale europeo dei primi decenni, nel nome di una ricerca sugli specifici di un cinema ancora smarcato da un ruolo preciso all'interno del sistema culturale, poi sempre più nel nome di un sincretismo espressivo di matrice postmoderna tipico della seconda metà del Novecento. Tralasciando ad esempio l'opera di un Greenaway, dove non vi è alcuna organicità fra i due medium e la pittura viene utilizzata soltanto come parte di un ipermanierismo programmatico votato all'accumulazione sincretica di spunti, occorre dire che questa quadratura del cerchio non è mai stata compiuta in maniera definitiva. Anche nel caso dei tentativi più coraggiosi, si è sempre incappati in un ipercorrettismo didattico che ha creato film adatti alle gallerie d'arte ma non alla sala, oppure a opere di videoarte che rinunciando alla ricerca hanno finito col somigliare al brutto cinema. Uno tra i pochi esempi realmente coraggiosi e riusciti è forse quello di Stan Brakhage, cineasta americano sperimentale, e si situa ai confini di ciò che è il cinema comunemente inteso, pur condividendone del tutto le finalità espressive. Brakhage, nel tentativo di un cinema soggettivo che superasse la tradizionale imparzialità dell'obbiettivo, distrusse la referenzialità dell'occhio della telecamera finendo col proporre, attraverso i suoi lavori astratti, ottenuti dipingendo direttamente sulla pellicola, film non girati e non filmati, e giunse a quella che è forse la più compiuta forma di pittura in cinema. E definendo alcuni degli specifici profondi delle due arti: il cinema e la pittura sono le arti scaturite dal gesto di guardare con i proprio stessi occhi (The act of seeing with one's own eyes è il titolo, derivazione letterale del termine autopsia, di uno dei più imponenti lavori di Brakhage, costituito essenzialmente di filmati di dissezioni umane che si trasformano in terribili riflessioni sull'identità e sull'individualità). E questa definizione di cinema calza perfettamente con quella che sembra avere lo Schnabel regista, attraverso le prove più tradizionali di Basquiat e Prima che sia notte, incentrate più sulla narrazione del gesto artistico che non sul tentativo di essere arte, e poi con lo splendido Lo scafandro e la farfalla. Autore di un'arte istintiva e necessaria, Schnabel sembra far corrispondere lo sguardo con l'essenza dell'arte: è il gesto di vedere ad essere momento estetico, prima ancora della sua formalizzazione in oggetto d'arte. L'opera d'arte non è tanto il risultato dello sguardo, quanto la poesia di una mente dotata di immaginazione con un occhio aperto sull'esterno. Schnabel applica la stessa poetica della gestualità e dell'urgenza della sua pittura al cinema: prima indirettamente, mettendo in scena la vita di un pittore a lui simile per molti aspetti, Basquiat, massimo esempio di arte incosciente, urgente, travaso necessario e spontaneo fra cervello, occhio e mondo esterno. La strategia di Schnabel in Basquiat, come in Prima che sia notte, è quella di un autobiografismo emozionale, una corrispondenza di sensazioni: comunque, una forma biografica sincera ma tendenzialmente tradizionale.
 
ImageÈ con Lo scafandro e la farfalla che Schnabel si distacca da questa tendenza vagamente parassitaria, raccontando comunque, ancora una volta, la storia vera di un artista per necessità (una necessità decisamente diversa da quella pulsionale di Basquiat: Jean-Dominique Bauby detto Jean-Do fu costretto dopo un ictus a comunicare esclusivamente con il movimento di una palpebra, dettando in tal modo la sua storia, che fu pubblicata pochi giorni prima della sua morte), ma agendo sulla materia in modo più profondo, per la prima volta fondendo organicamente forma e contenuti. Questa volta la creazione è sì necessaria, ma non più naturale, legata com'è all'immobilità completa del protagonista: questo obbliga Schnabel ad analizzare i meccanismi della creazione su un piano terribilmente più intimo, meno scontato, meno mediatico. Se in Basquiat l'analisi era sui meccanismi sociali dell'arte, sulla maschera dell'artista, ora per la prima volta Schnabel osa andare più a fondo, parlando di ciò che veramente costituisce la base del processo di creazione estetica. Dopo la disperazione del risveglio, Jean-Do si rende conto, con una sorta di rassegnazione che ha qualcosa di epico, che in fondo un occhio e una palpebra possono garantire la vita. Una vita intesa non semplicemente come continuazione biologica, ma come possibilità di rapportarsi con l'universo, e goderne. A Jean-Do, dopo aver perso tutto, rimangono un occhio, l'immaginazione e la memoria: non che possano bastare (Schnabel per fortuna evita qualsiasi presa di posizione nella questione eutanasia, preferendo rimanere su un piano molto più intimo dove tali prese di posizione diventano quasi futili al confronto con la realtà), ma dopo questa constatazione comprende di essere ancora un essere umano. In questa epifania, Jean-Do diventa un artista: per costrizione, ma il suo stesso essere diventato un occhio puro lo trasforma suo malgrado in creatore di significati e di bellezza. Con questi presupposti Schnabel punta ad una totale aderenza della forma sul significato: raccontando la storia di un uomo trasformato dolorosamente in una sorta di macchina da presa, gira, soprattutto nella prima parte, attraverso l'occhio del suo protagonista, in una soggettiva distorta e immobile, un punto di vista fisicamente inerte come un obbiettivo, ma emotivamente lucido come lo sguardo di un regista.  Jean-Do è uno sguardo capace di pensare, ma che altri devono muovere perché possa essere attivo. Riassumibile in uno sguardo e nelle immagini che ne risultano, è un uomo-cinema, ma di un cinema che è contemporaneamente pittura proprio per l'impossibilità di movimento proprio (non bisogna ricordare che lo sguardo di Bauby è monoculare e quindi bidimensionale, effetto ricreato con estrema grazia da Schnabel).

ImageIl risultato, a livello teorico e di ontologia del cinema, è sorprendente: basti guardare la scena, formalmente splendida, in cui ai visitatori di Jean-Do vengono date le istruzioni per parlare con lui in modo da non uscire dal suo campo visivo. È raro vedere la macchina linguistica cinematografica finire con l'essere l'unica possibile per mettere in scena una storia: Lo scafandro e la farfalla, molto semplicemente, non poteva che essere un film (e lo stesso Bauby, nella sua reclusione fisica, doveva esserne in qualche modo cosciente, considerato che pensava per il suo romanzo il titolo L'occhio, prima di scegliere quello definitivo, più umano e poetico). In questa prospettiva - anche se dopo la prima mezz'ora di soggettiva pressoché costante, lentamente, il film cede alla tentazione del controcampo, così come la sceneggiatura abdica dall'immaginazione per piegarsi alla parola, diventando meno film di pittura e più un film su un uomo che dipinge - risalta il tentativo di ridefinire gli specifici della pittura nel tempo della sua brusca perdita di importanza nel panorama artistico e culturale. Un tracollo che induce Schnabel ad un doppio percorso: di astrazione, isolando gli archetipi della rappresentazione visiva bidimensionale, e contemporaneamente di opposizione, lanciando questi archetipi all'interno di un altro medium, il cinema, e provando a far sì che mantenga un'indipendenza al suo interno. Finendo col compiere una ridefinizione reciproca di cinema e pittura, e cercando i limiti interni dell'apparato visivo cinematografico. La grandezza de Lo scafandro e la farfalla non si riassume in questa ricerca, che se fosse stata il baricentro del film avrebbe portato ben più di un sospetto di cinismo gratuito. Paradossalmente, tutto questo lavorare sulla soggettiva, sul campo e sul fuoricampo, sul cinema, è anche e soprattutto un modo per evitare ogni razionalismo e portare il film ad un livello di fruizione pulsionale, come nelle opere pittoriche di Schnabel: tutto l'impianto registico, improntato sulla riproduzione dello sguardo bidimensionale e distorto di Bauby, è studiato in definitiva per rendere perfetta l'identificazione fra spettatore e protagonista. Lo scafandro e la farfalla è sì una ricerca molto formale e precisa su questioni teoriche, ma è principalmente un film di poesia. Sul terreno minato di un soggetto difficilissimo Schnabel lavora con eleganza e umanità, e così come analizza gli specifici di base delle arti che usa, lo stesso fa con le emozioni dei suoi protagonisti, andando spesso a fondo su questioni irrisolte riguardo agli esseri umani. Lo scafandro e la farfalla è l'incubo di un uomo che vede troncata la sua vita, con in più l'aggravante della totale lucidità, la storia di un uomo che riesce a scoprire la poesia solo perché gli tolgono tutto il resto, e accetta questa poesia con una sensibilità che in qualche modo lo salva da una vita precedente, che si intravede non del tutto innocente. E soprattutto è un film inaspettatamente ironico, leggero, raccontato da un punto di vista, quello di Bauby, che sopravvive grazie alla desacralizzazione del suo stesso dolore, dell'orrore di ciò che sta vivendo: Jean-Do si prende in giro, sfotte l'ipocrisia imbarazzata di medici che sanno ciò che sta subendo ma non lo capiscono, gioca con una sessualità interrotta, elabora complesse teorie sulla visione della Tv in camera.

ImageNe Lo scafandro e la farfalla il dolore, il male, hanno un elemento di ridicolo, di quel ridicolo vitale che, ben lontano dall'essere irrispettoso, riesce a svelare strane realtà difficilmente esprimibili con le armi della razionalità. L'immagine di Jean-Do, con lo sguardo curioso e vagabondo in un corpo inerte, fa ridere. Fa ridere perché è bella, perché è umana: una volta tanto, non è finta. Fa ridere perché ha all'interno la malinconica ironia che hanno gli esseri umani osservati in senso astratto. E poi, perché ridere fa parte della vita: la comicità del dolore lo certifica come appartenente al nostro mondo, ce lo accomuna (è piuttosto la serietà, se mal utilizzata, a sembrare in casi del genere una forma di scherno, di esclusione), lo trasforma in qualcosa di irrazionalizzabile, fisico, empatico. Schnabel quasi sovverte uno dei canoni della rappresentazione del dolore al cinema: nella prassi abituale la serenità di chi soffre è sempre legata, di fatto, ad una ipocrita cancellazione, o estremo alleggerimento, del male. Lo scafandro e la farfalla rappresenta un grado molto più profondo di serenità: quella di un uomo che tenta di costruire una sorta di felicità proprio a partire dalla consapevolezza della morte e del dolore, facendoli parte di sé in modo da poterli accettare.

 


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