Love Story: eros e thanatos PDF 
Francesca Druidi   

Chi non conosce Love Story, il film diretto da Arthur Hiller nel 1970 che contribuì di fatto a salvare la Paramount dalla bancarotta, diventando una delle pellicole più bistrattate dalla critica ma anche una delle più popolari presso il grande pubblico? Tratta dall’omonimo romanzo di Erich Segal, che ne ha curato anche la sceneggiatura, la storia dell’erede della classica, ricca, famiglia wasp americana Oliver Barrett IV (Ryan O’Neal) e di Jenny Cavalleri (Ali MacGraw), figlia di un pasticcere italiano (John Marley), è archetipica: si conoscono all’università - lei studia musica alla Radcliffe, lui è un predestinato alla facoltà di legge di Harvard che gioca a hockey - e si innamorano perdutamente. Per stare insieme, e sposarsi, sfideranno l’ostilità del padre di lui, Oliver Barrett III (Ray Milland), prigioniero delle convenzioni e delle opposte condizioni sociali dei due giovani. Quando tutto sembra andare per il meglio, ecco l’irreparabile: una leucemia fulminante si porta via Jenny, a soli venticinque anni.

L’organizzazione narrativa che presiede la struttura di Love Story rinvia chiaramente alle convenzioni del melodramma, innanzitutto per l’espediente del flashback di apertura. Il film inizia, infatti, con Oliver seduto sulle gradinate della pista di pattinaggio, luogo condiviso con Jenny; “Che cosa si può dire di una ragazza morta a venticinque anni? Che era bella, che era intelligente? Che amava Mozart e Bach? I Beatles? E me”, è il messaggio lanciato in voice over dal personaggio interpretato da Ryan O’Neal allo spettatore. L’incipit stabilisce già un’attesa per la risoluzione dell’evento drammatico che conforma le aspettative patetiche ed emozionali del pubblico, il quale fin dall’inizio è a conoscenza della tragica conclusione dell’intreccio. L’espressione “immaginazione melodrammatica”, coniata da Peter Brook al posto del concetto di genere, restituisce l’idea di come il melodramma costituisca un’istanza narrativa universalmente valida, capace di calibrare forze tra loro in opposizione (odio e amore, bene e male, tragedia e commedia), facendo spesso leva sia sulla derivazione dal romanzo (come accade anche in questo caso) che sulla ricerca della partecipazione emotiva dello spettatore. Love Story aderisce a questa modalità di racconto e di messa in scena. Canone melodrammatico per eccellenza presente nel film è, inoltre, il motivo dell’amore contrastato, dell’amore impossibile che si piega ai voleri del destino. L’impedimento nel film di Arthur Hiller è addirittura duplice: c’è innanzitutto l’ostacolo rappresentato dalla famiglia di Oliver, e in particolare dal padre. Il già conflittuale rapporto genitore-figlio è inevitabilmente compromesso dalla relazione di Oliver con Jenny e poi dalla scelta di sposarla. Diretta conseguenza del ripudio del padre è la non facile vita che i neo-sposini sono chiamati ad affrontare: Jenny fa l’insegnante; Oliver fa qualche lavoretto mentre cerca di laurearsi ad Harvard, che non gli ha concesso la borsa di studio in virtù dei suoi natali. La coppia riesce a superare queste difficoltà: lui porta a termine l’università e viene assunto in un prestigioso studio legale di New York; lei vuole un figlio quando, però, è ormai una malata terminale.

L’insuperabile impedimento è, dunque, il male incurabile che spegne in fretta la giovane donna. Per quanto la leucemia svolga un ruolo determinante nell’economia del racconto, si tratta di un elemento volutamente non approfondito o sviluppato nella narrazione. Pochi e poco esplicitati sono i dettagli relativi alla malattia e alla terapia somministrata a Jenny. Piuttosto, le costose cure costituiscono l’unico valido motivo per il quale Oliver accetta di ripresentarsi davanti al padre chiedendogli in prestito i soldi, ma mentendogli sulla ragione per cui gli servono. E ancora, il dialogo rivelatore tra il medico e Jenny in merito alla sua sorte non viene rappresentato sullo schermo, ma solo riportato a parole dalla donna al marito. Ridotte all’osso sono anche le sequenze in cui i due protagonisti discutono di quanto sta per succedere loro. Persino la morte di Jenny avviene lontano dalla macchina da presa.

Questo perché Love Story non è un film realistico sugli effetti di una forma di tumore al sangue o su come una giovane donna affronta dal punto di vista psicologico la fine della sua vita. Love Story è - sfruttando la traduzione letterale del titolo - la storia d’amore di una coppia che ha costruito il proprio modus vivendi sulla massima: “amare significa non dover mai dire mi dispiace”. Uno status quo sentimentale ed esistenziale che neppure la morte può scalfire. Il topos dell’amore spezzato è qui inesorabilmente ricondotto all’archetipica connessione che unisce eros e thanatos. La malattia identifica un’ulteriore esemplificazione dell’amore tra i due personaggi. In punto di morte, in ospedale, Jenny rivela a un Oliver dilaniato dai sensi di colpa, che i sacrifici compiuti - non essere andata a Parigi per studiare musica, aver lavorato il doppio per consentire a Oliver di laurearsi - non sono stati tali per lei. Non esistono pentimenti, rinunce, derive egoistiche quando c’è un’adesione così forte e naturale a un sentimento che ha avuto, ha e avrà la priorità assoluta. E se la morte melodrammatica sprigiona i suoi dirompenti effetti soprattutto su chi resta, su chi sopravvive, Oliver è spronato dalla moglie a guardare avanti, a vivere e a risposarsi.

Titolo originale: Love Story; Regia: Arthur Hiller; Sceneggiatura: Erich Segal; Fotografia: Richard C. Kratina; Montaggio: Robert C. Jones; Scenografia: Robert Gundlach; Costumi: Alice Manougian Martin, Pearl Somner; Musiche: Francis Lai; Produzione: Love Story Company, Paramount Pictures; Distribuzione: Paramount, CIC; Durata: 99 min.; Origine: USA, 1970

 


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