Max Flamini (Valerio Mastandrea), fisico nucleare trentacinquenne, vive tra l'università e un moderno laboratorio nel ventre del Gran Sasso in cui sta conducendo un importante esperimento denominato Helios. Nominato responsabile, Max non esita a modificare i parametri dell'esperimento in modo che possa portare ai risultati auspicati in sede di conferenza stampa. Max sa bene che questa è l'occasione della sua vita e la recente scomparsa del padre pesa ancora come un macigno. Al progetto lavora anche la francese Anaïs (Gwenaelle Simon), con la quale egli ha una relazione sentimentale tormentata. Dopo aver scoperto la manomissione dei parametri, Anaïs si scaglia violentemente contro Max e questi, messo con le spalle al muro, fugge da tutto e da tutti, incorrendo in un terribile incidente. Lo salverà il pastore Bajram (Lulzim Zeqja) che lo porterà a confrontarsi con se stesso, tra dubbi e speranze.
Alla seconda prova sul set, l'orchestra Vicari-Mastandrea, dopo l'interessante Velocità massima , delude con una stecca di quelle a cui il cinema italiano ci ha ormai abituati da tempo. "L'orizzonte degli eventi" del titolo richiama quella soglia a cui l'astronomia si riferisce quando la sottrazione alla morsa gravitazionale di un buco nero diventa impraticabile. A tale soglia non si sottrae neppure questa pellicola, risucchiata da una sceneggiatura improponibile per povertà e vuoti narrativi verso l'autocompiacimento stilistico. Valerio Mastandrea, lontano dalle prove che lo avevano fatto notare in passato al grande pubblico, è qui sottoposto a uno sforzo titanico, stretto com'è tra una recitazione impostata e un ruolo improponibile per le sue caratteristiche recitative, opache se non supportate da una vena ironica consistente. La fatica a cui è sottoposto il film si nota già dall'incipit poco ispirato: un'infinità di passaggi non veloci, precipitosi, tra esteriorità e interiorità, tra le luci comunque soffuse degli esterni e le ombre manierate delle viscere del Gran Sasso. In questo tumultuoso scambio di binari, la regia fredda e distaccata, e in questo sì congeniale all'opera, di Daniele Vicari (vincitore nel 2003 del David di Donatello per la regia proprio di Velocità massima ) si segnala unicamente per alcuni esercizi stilistici, quasi accademici, a cui fanno da sottofondo i suoni industrial dell'inutile e imbarazzante colonna sonora firmata da Massimo Zamboni. E la divisione del film, netta e distinta, in due tronchi, ognuno con un proprio registro, una sorta di contrapposizione notte/giorno, non aiuta certo la vicenda, persa in tempi narrativi troppo lunghi, a volte volutamente dilatati alla ricerca di quell'aura intellettuale che non arriva, tra l'analisi psicologica e quella, se possibile ancora più banale e pretestuosa, sociologica.
L'orizzonte degli eventi appare incerto e poco conscio delle potenzialità che i temi intavolati possono offrire. Forma solida per una sostanza debole. Coraggioso solo a livello formale, si perde quasi immediatamente scavando in quelle implicazioni/complicazioni da cui non riesce ad emergere. Squilibrato, insoluto e poco sincero.
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