TOFIFE 2004 / Slasher PDF 
di Mattia Plazio   

A sei anni dal misconosciuto "Delitto imperfetto", torna sullo schermo il re della commedia demenziale americana anni Ottanta, John Landis, l'irriverente e vulcanico autore di film culto quali Animal House, The Blues Brothers e il sempre troppo sottovalutato Tutto in una notte. E lo fa, udite udite, con un docu-fiction a sfondo politico che, proprio perché percorso da quel gusto sfrontato per la battuta insolente e beffarda - che è poi tra le cifre stilistiche di tutto il suo cinema - si inserisce con grande coerenza nella tradizione dei suoi film più dichiaratamente "politici", dal citato Animal House (corredato non a caso nell'ultima riedizione in DVD di un finto documentario che ne accentua i lati più velenosi) a Una poltrona per due fino allo sgraziato The Stupids.

Mai come in questo caso, tuttavia, la metafora risulta così manifestamente scoperta ed efficace - venata in fondo da un'amarezza quasi del tutto assente nelle precedenti pellicole -, a dimostrazione, ancora una volta, della ritrovata urgenza da parte di molti registi d'oltreoceano di calarsi più criticamente in una realtà nella quale, forse mai come ora, si sentono degli outsider e della necessità di opporsi, scendendo in campo con le armi a loro disposizione, alla deriva di un sistema impazzito, cinico, disumano, distante anni luce da una qualsiasi dimensione etico-sociale. Sì perché, al di là dell'incipit, con il quale Landis, per mezzo di un divertito/divertente montaggio di storiche bugie presidenziali (da Nixon a George W. Bush, passando per Reagan, Clinton e il celebre "read my lips" di Bush senior), traccia programmaticamente l'inquietante parallelismo fra il protagonista Michael Bennet, lo "stracciaprezzi", e il politico di professione, "Slasher" - questo il titolo del documentario - suona innanzitutto come un attacco frontale al sistema capitalistico americano e alle sue aberrazioni più recenti, di cui Bennet non è che un semplice, e per certi versi incolpevole, ingranaggio. È lo stesso regista americano d'altronde ad affermare: "Michael Bennet è una fetta della grande torta americana. Inizialmente volevo che il film fosse un ritratto parallelo di lui e di Bush. Due grandi venditori all'opera! […] Poi ho capito che Bennet è meno pericoloso del presidente e ha uno spessore e una complessità ben maggiore. Alla fine ho fatto il film solo su di lui, limitando le bugie dei presidenti ai primi minuti".

Fuori e dentro la concessionaria di Memphis, il ritmo frenetico ed incalzante con il quale la macchina da presa "pedina" a tempo di blues Michael Bennet - impegnato tra esagitati monologhi solitari e folli tentativi di (auto)convincimento - svela l'immagine di un uomo che è allo stesso tempo artefice e vittima di un ordine che sembra sorretto da un'unica quanto deplorevole legge, "inganna il prossimo, sempre e comunque". Norma eticamente esecrabile certo, ma che trova tuttavia un suo preciso riscontro non solo nelle azioni e nelle parole dei grandi venditori di fumo (i boss che hanno governato e governano tutt'ora il mondo), ma anche in quelle, quotidiane, dei pesci infinitamente più piccoli, indaffarati in un'impietosa, seppur necessaria, lotta per la sopravvivenza, dominata dal principio del saper vendere (se stessi, la guerra, una macchina…) e da un individualismo feroce e malato nel suo premiare chi si distingue per furbizia e cinismo.

Landis, dal canto, suo non si sente, e lui con noi, di condannare la seppur discutibile condotta del protagonista, colto spesso in atteggiamenti melanconici (si pensi agli irresistibili dialoghi telefonici con la moglie) che rivelano la consapevolezza di essere lui stesso un loser al pari dei suoi malcapitati clienti, costretto ogni giorno a "doparsi" di birra e adrenalina per essere in grado di "spararle" ancora più grosse e mettere così in atto il suo quotidiano one-man-show. Né si sente di condannare l'ingenuità e l'ignoranza della povera gente - peccati mortali nell'era della comunicazione - che accorre alla svendita senza preoccuparsi di arrivare a comprendere il significato che si cela dietro la luccicante superficie di parole e slogan, attirata da facili, quanto improbabili, affari (una macchina per 88 dollari!) che, come quello propinato da Bush agli States sulla guerra in Iraq, si rivelano poi essere per quello che sono.

Dietro l'apparenza di un film leggero e disimpegnato, come è nella migliore tradizione del cinema di John Landis, si nasconde dunque un intelligente spaccato della vecchia America persa dietro a quei miti consumistici da lei stessa creati e alimentati, un documento crudo e feroce contro gli orrori del capitalismo. Non è un caso allora che Slasher sia stato presentato in anteprima alla XXII edizione del Torino Film Festival, quest'anno più che mai percorso da un filone social-politico che, senza raggiungere i paradossi di Cannes (premiare Moore è stato un errore da un punto di vista "strategico", ancor prima che artistico) ha visto protagonisti sullo stesso fronte, oltre a Landis, anche altri mostri sacri del cinema targato USA come Martin Scorsese (Lady by the Sea), Robert Altman (Tanner on Tanner), Steven Soderbergh (K Street) e John Sayles (Silver City).

 


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