Mettiamola così: avremmo potuto concedere qualche attenuante agli sprovveduti se in questo tipo di avventure si fossero lanciati più di quarant’anni fa, ma chi in pieno Duemila parte con alcuni giovani amici per un viaggio in macchina nel cuore della provincia sudista degli Stati Uniti diretto ad un concerto dei Lynrd Skinrd (??) e carica a bordo la prima non-autostoppista con aria allampanata che trova per strada, un po’ se la sta andando a cercare. Perché nel periodo in cui Marcus Nispel gira il remake di Non aprite quella porta, suo esordio al lungometraggio dopo aver diretto esclusivamente spot e videoclip (Spice Up Your Life delle Spice Girls era opera sua, tanto per intenderci…), esiste già un consolidato immaginario da horror movie più o meno adolescenziale, ed è quello stesso sistema di personaggi e situazioni-tipo e di leit motiv narrativi che sta conoscendo nuova dignità commerciale e del quale il regista tenta di mettersi al traino.
Più realista del re la sua scelta di rifarsi al copione di un titolo di metà anni ’70 che il genere, almeno in parte, ha contribuito ad inventarlo, per poi sostanzialmente tradirlo in alcuni dei suoi aspetti più significativi: il The Texas Chainsaw Massacre diretto da Tobe Hooper è a tutti gli effetti una pietra miliare del cinema grindhouse e, come tale, una pellicola a basso budget e ad alto effetto, anche per i suoi richiami ad avvenimenti della cronaca nera contemporanea. L’orrore, in questo caso, stava tutto in ciò che si mostrava, una rappresentazione “nuda e cruda”, per necessità tecnica e per estetica virtù, dei fatti sanguinosi che realmente affliggono le zone d’ombra della provincia americana, tanto più “paurosa” quanto più vicina e verosimile. Funga da esempio l’introduzione a mo’ di didascalia, ad assicurare il collegamento con la cronaca e sottintendere così una ripresa e riproduzione fedeli dei fatti; viceversa, lo stratagemma utilizzato da Nispel è già un elemento di messinscena, dalla pretesa realistica (la camera a raggi infrarossi che riprende le indagini sul luogo del delitto, fino ad una drammatica e misteriosa interruzione) ma di fatto appoggiato a un’estetica più che collaudata, quella del video “spiritico”.
Considerazione, quest’ultima, che può estendersi per l’intero remake: la fotografia gioca strategicamente con il favore del buio, terrorizza per quel che si nasconde più che per quel che dà a vedere; gli insistiti riferimenti all’autolesionismo della pellicola originale o il personaggio del ragazzo in sedia a rotelle (in un implicito parallelo con il mostruoso antagonista sfigurato) vengono depennati, e tutto quel che resta è convenzione: le famiglie nella roulotte, lo sceriffo maniaco e il mostro con la motosega sono maschere già note agli spettatori e destinate a venire riconosciute come tali, al netto di qualsiasi collegamento con realtà sociali presenti o passate che siano. L’efficacia nel ritmo del racconto e delle scene più crude non toglie comunque l’intempestività (o il tempismo commercialmente sospetto) del lavoro di Nispel: il suo monito a “non aprire quella porta” arriva dopo che già troppe e di troppo simili ne sono state abbattute, e l’eventualità di quel che potremmo trovarci dietro ora ci spaventa decisamente meno.
|