Sostiene Thomas Mann ne La montagna incantata che gli anni giovanili, pieni di avvenimenti, “passano più adagio di quelli poveri, vuoti, leggeri che il vento sospinge e fa dileguare. (…) Lunghi periodi di tempo, se non si interrompe l'uniformità, si restringono in modo da far paura; se un giorno è come tutti, tutti sono come uno solo; e nell'uniformità perfetta la più lunga vita sarebbe vissuta come fosse brevissima e svanirebbe all'improvviso”. Mettere al mondo dei figli può essere un espediente per eludere questo inevitabile acclimatarsi alla vita, può consentire di iniziare un nuovo ciclo di avvenimenti attraverso gli occhi della persona che si affaccia per la prima volta al mondo. Ma non è questo che accade a Rebecca, che sceglie di portare in grembo (womb, appunto) e allevare come un figlio il clone di Thomas, il ragazzo amato da sempre, appena ritrovato e subito morto in un incidente d'auto. Il tempo di Rebecca, come la bellezza austera di Eva Green che la interpreta, si immobilizza. La sua vita si congela nell'attesa - una volta cresciuto Tommy - di poter riprendere lì dove si era interrotta. Il suo disperato tentativo di rendere il tempo uguale a se stesso, di estorcergli una seconda possibilità, ne stravolge il senso e ne deforma le potenzialità.
Le premesse inquietanti del film dell'ungherese Benedeck Fliegauf sono sviluppate in un non-tempo e in un non-luogo, sensazione accentuata anche dall'ambientazione, le spiagge desolate che si affacciano sul Mare del Nord. Tutto ciò che sappiamo è che in questo universo parallelo, che tanto assomiglia al nostro, esiste la possibilità di clonare gli esseri umani. Ma il film gioca su due registri. Da un lato, troviamo appunto la riflessione bioetica sulle conseguenze di un atto che può stravolgere le nostre esistenze, su una tecnologia che rischia di isolarci: se Rebecca accoglie con sollievo questa possibilità, la società non la accetta ed emargina le “copie”, forse presaga del fatto che più che di un'opportunità, di un potere, si tratti in realtà di un ostacolo all'elaborazione del lutto; dall'altro, e di conseguenza, si può dire che la clonazione è qui più che altro utilizzata come pretesto per portare all'estremo certe derive umane patologiche, come l'incapacità di accettare il dolore della perdita e il rapporto fusionale e interdipendente tra madre e figlio. Il “secondo” Tommy è infatti vittima di sua madre (o di quella che crede sua madre), e in una lettura psicanalitica la sua figura diventa emblematica dell'impossibilità per un figlio di essere semplicemente se stesso. Il peso dell'eredità grava su di lui, la sua unicità è messa a repentaglio. Quando se ne scopre spogliato, non può che ribellarsi. Ma come spesso accade l'ingratitudine è ciò su cui fa leva il senso di colpa: “Che puoi volere di più? Ora sei qui, e sei vivo”, gli risponde lei.
Come in una tragedia greca, le colpe dei padri ricadono sui figli, e tutto il film alterna il richiamo al mito di Edipo a quello di Orfeo ed Euridice, trattando temi universali, come dimostra anche il fatto che i due protagonisti sono tratteggiati in modo molto essenziale. È questa pretesa universalistica a rendere Womb tanto ambizioso, seppur non sempre all'altezza degli interrogativi che pone. Su tutto domina il silenzio, e questo è già notevole per un film con volontà (o velleità, a seconda dei punti di vista) filosofiche: l'angosciante enormità delle tematiche affrontate è affidata all'immagine. Questo non a discapito di una trama molto sottile: l'aspetto più disturbante di Womb è che se Rebecca abbraccia consapevolmente fin dall'inizio la perversione della coazione a ripetere come forma di difesa, il film sembra nel finale darle ragione, disintegrando con le ultime battute tutte le convinzioni costruite nello spettatore attraverso il crescente disagio che accompagna la narrazione del rapporto tra lei e il figlio. Ed è forse proprio questo a renderlo qualcosa di più di una distopia, di un film a tesi come tanti altri. Nel finale, Thomas la ringrazia, e se ne va. Il nucleo formato dai due protagonisti si scinde, restano due atomi, completamente soli, come solo è lasciato lo spettatore davanti a dubbi profondi sui quali l'essere umano si interroga da sempre.
Titolo originale: Womb; Regia: Benedek Fliegauf; Sceneggiatura: Benedek Fliegauf; Fotografia: Péter Szatmári; Montaggio: Xavier Box; Scenografia: Erwin Prib; Costumi: Mariano Tufano; Musiche: Max Richter; Produzione: Razor Film Produktion GmbH, Inforg Stúdió, Asap Films, arte France Cinéma, ZDF/Arte, Boje Buck Produktion; Distribuzione: Bolero Film; Durata: 111 min.; Origine: Germania/Ungheria/Francia, 2010
|