Se sei vivo spara PDF 
Simone Dotto   

Ogni volta che un nuovo Tarantino si prepara ad uscire nelle sale è come se il cinema, italiano e internazionale, proclamasse aperto il carnevale. In un regime da “mondo alla rovescia”, complici le preferenze molto personali del regista americano, i b-sides arrivano a giocare in serie A: così, per qualche giorno il Lino Banfi del Commissario Lo Gatto può trovarsi a prendere posto accanto ai Monty Python, e Sergio Corbucci sperare in una campagna di rivalutazione mondiale addirittura a discapito di John Ford (solo l’ultima vittima eccellente del revisionismo dell’autore di Pulp Fiction).

Ora che tira di nuovo aria di spaghetti-western, tra i possibili e più o meno improbabili ripescati, Se sei vivo spara di Giulio Questi meriterebbe una riscoperta che vada al di là del piacere momentaneo della boutade. Dall’uscita di Django Unchained viene chiamato in causa solo lateralmente, dal momento che fu distribuito presso il mercato statunitense col titolo di Django…if you live shoot, a rafforzare i punti in comune con i film interpretati da Franco Nero. Il Django in questione, però, si fa chiamare Hermano e ha il volto di Thomas Millian: mezzosangue messicano, partecipa con i suoi compari a un colpo insieme a un gruppo di americani, che, a cose fatte, si rifiuteranno di dividere il bottino e costringeranno addirittura gli ex complici a scavarsi la fossa da soli. Sopravvissuto per miracolo alla mitragliata che ha ucciso tutti gli altri, Hermano viene riportato alla vita da due pellerossa. Come Django, dunque, è un miracolato, e l’immagine della “resurrezione” dalla tomba, anche se non iconica quanto quella del personaggio di Nero che si trascina appresso la sua stessa bara, saprà meritarsi comunque una citazione diretta nel secondo volume di Kill Bill. Dopo essere approdato in città per fare giustizia dei suoi mancati carnefici, Hermano si ritrova coinvolto in una nuova corsa all’oro, rimbalzato tra i centri di potere che dominano la vita della comunità: Sorrow, ricco proprietario terriero accompagnato da squadre di balordi, Hangman, predicatore bigotto, e Templer, l’oste malconsigliato dall’avida moglie, se lo contendono l’un l’altro, tentando a turno di assoldarlo per difendere i propri interessi e rintracciare il bottino della rapina. Oltre agli aspetti dal retrogusto pulp, che salteranno all’occhio del tarantiniano medio, e alle scene di sangue che ai tempi non passarono il vaglio della censura, la pellicola conta anche meriti meno superficiali. Su scelta del produttore Franco Jacovoni, Giulio Questi trova il modo di scrivere, insieme a Franco Arcalli, quasi un “memoriale di resistenza”, ispirandosi per le scene più violente ai ricordi partigiani (i tagli di montaggio nei flashback del protagonista, inoltre, anticipano di poco quelli “allucinati” di Easy Rider, più giovane di due anni) e dando al racconto un forte impianto di critica sociale.

Il cowboy randagio, che spara con proiettili dorati e rifiuta a più riprese le ricompense in denaro, entra nella vita cittadina contemporaneamente al carico d’oro, e riesce con esso a svelarne l’ipocrisia. “I nostri”, in questo caso, sono i deboli, gli incatenati, gli oppressi, gli unici ai quali il cavaliere solitario ritiene di legare il proprio cammino: gli indiani che lo aiutano a rimettersi in piedi e che saranno poi vittime delle reprimende finali; la moglie di Hangman, letteralmente imprigionata in casa per non turbare le apparenze; Evan, figlio dell’oste, stuprato dagli uomini di Sorrow e poi morto suicida per la vergogna, verso il quale l’antieroe di Questi aveva provato un’esplicita attrazione omosessuale (un altro particolare significativo che la versione tagliata mette a tacere). Quasi tutti cadono senza speranza prima che Hermano riesca a salvarli. Agli altri, agli oppressori, manda a dire che sono “tutti marci, più di qualsiasi cadavere”. Il suo è un grido di consapevolezza e ribellione, l’urlo di chi sa che, in una società che schiaccia, si deve anche sparare per restare vivi.

 


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