Vincere PDF 
Gianpiero Ariola   

Come nelle precedenti pellicole, anche questo nuovo lavoro di Marco Bellocchio sembra confermare la sua predilezione per l’uso di immagini d’archivio, non solo per contestualizzare storicamente le vicende (come Buongiorno, notte anche Vincere ha come sfondo uno degli eventi sensibili del Novecento italiano), ma più fortemente per arricchire la configurazione stessa del film, mettendo costantemente in relazione critica due flussi visivi: le scene nuove e il materiale preesistente. Si assiste, così, a una costruzione connotativa, che, se pur non costituisce un elemento di novità in Bellocchio (1), certo assume in Vincere un carattere di originalità. Infatti, le immagini extradiegetiche, nel loro processo di attrazione con quelle propriamente narrative, slittano spesso da un accostamento di tipo diacronico, ovvero in successione, a uno di tipo sincronico, annidando un quadro nel quadro. Di certo un piccolo tributo al montaggio intellettuale, esplicitato, peraltro, con la citazione diretta a Ottobre di Ejzejstein. 

Uno dei passaggi più interessanti, a tal riguardo, è la scena in cui Mussolini viene ferito e giace nel letto di un ospedale improvvisato. Sia per il fatto che, in realtà, ci si trova in una chiesa, sia perché viene proiettato un film sulla crocifissione e il clima pietoso è enfatizzato e presto condotto verso un tono sarcastico, soprattutto quando alle lacrime di Rachele vengono associate quelle delle pie donne, oppure quando al futuro duce dolorante viene accostata l’agonia di Cristo sulla croce (con immagini tratte da Christus di Giulio Antamoro). Un’altra interessante caratteristica del raffronto tra materiale originale e immagini d’archivio avviene mediante una sovrapposizione, che, congiunta ad una precisa scelta fotografica di esposizione, conduce all’espressiva realizzazione di figure in silhouette. In più occasioni i personaggi sono infatti inquadrati contro uno schermo o uno sfondo illuminati, configurando, per analogia, la campagna di occultamento perpetrata dal governo fascista, capace di gettare lati oscuri su quelle vicende scomode, colpevoli semplicemente di opporsi alla loro “luminosa” verità. Nel caso specifico, è la storia di una donna, vicinissima al giovane Mussolini, a venire inabissata nelle tenebre, una donna dal coraggio coriaceo che reclama la propria identità e fisionomia all’interno di pagine/immagini già scritte, e tristemente note (Ida, in diverse scene compare nella sua sola figura, fortemente sottoesposta. Quella in cui procede sicura, in controluce e in direzione opposta agli altri, nella galleria è un ottimo abbrivio per inaugurare la sua battaglia personale). Inoltre, il ripetuto movimento di sagome nere contro l’animato vibrare dell’immagine/rifrazione o dello sfondo reale realizza un atto di oscura connessione con tali scenari, visivamente attivi. Sia che si tratti di quello contestuale della guerra appena scoppiata, sia che si tratti di immagini di propaganda partitica, la reazione è sempre vivace e netta. L’oscurità delle sagome in controluce si animano o si dimenano, anche se per scopi differenti (la Dalser per rivendicare una sua parte nella vita del duce, i fautori della guerra per dimostrare il proprio spirito patriottico, gli scolari indisciplinati per sfogare la propria giovinezza), ma tutte paiono anelare a quella scena illuminata, come ad esprimere la smodata passione di farne parte. Eppure, rispetto a quello sfondo, essi rimangono semplici ombre, ad esso annesse, pedine di un gioco politico troppo schiacciante per concedere loro pur pallidi bagliori di riconoscimento.

In quanto alla struttura del film, emerge chiara una forma bipartita, segnata da una netta cesura: il giovane Benito, interpretato da Filippo Timi, scompare nella seconda parte, quando il Mussolini fascista conquista il potere, e la sua figura compare soltanto nelle immagini d’epoca, quasi a segnare una separazione ancora più profonda tra le sorti di Ida e quelle dell’ormai inarrivabile duce. Quest’ultimo, che nella prima parte trovava un ampio spazio di interazione con la protagonista, successivamente sembra pertanto scivolare oltre lo schermo cinematografico, in una meta-realtà che il pubblico riesce a percepire solo mediante una proiezione nella proiezione (emblematica, a tal proposito, la scena in cui Ida rivede Mussolini, al cinema: la sua mezza figura, ancora in silhouette, si inserisce contro lo schermo che mostra il gigantesco busto del duce). Il quadro filmico crea allora una doppia profondità, una per separare, l’altra per avvicinare. Infatti, se da un lato il rapporto di solidarietà empatica dello spettatore verso Ida cresce, dall’altro, quello di lei con Mussolini, si infrange fermandosi proprio su quello schermo, assurto ormai a parete divisoria (si pensi alla scena in cui la Dalser rivela al cognato di aver “visto” Mussolini; lui trasale per un attimo, ma lei chiarisce che, in realtà, l’ha visto al cinema, ovvero oltre lo schermo/parete).

Ed è lungo questa duplice profondità prospettica che sembra palesarsi la nuova invettiva di Bellocchio contro i poteri costituiti di Stato e Chiesa. Il primo, con la brutalità della dittatura, atto a fabbricare reclusione per i ribelli, la seconda, che gestisce i manicomi, pronta a perpetrare un’inaccettabile connivenza. Inoltre, a marcare ancora più il gap tra le due fasi narrative, c’è il ruolo di Benito Albino, che passa bruscamente dall’infanzia all’età adulta, ove è interpretato dallo stesso Timi. Una coincidenza non banale, dato che il figlio illegittimo si mostra abilissimo a imitare l’enfasi oratoria del padre. Una imitazione/identificazione che porta il giovane a cedere alle lusinghe disinibite della pazzia per resistere allo iato insostenibile tra la verità raccontata dalla madre e quella fittizia, ma solidissima, imposta dal potere coercitivo dell’altro genitore. Forse è solo l’ennesimo atto di occultamento di una verità, forse anche questa follia è fittizia, eppure tutto appare credibile. Infatti, se una simile violazione cognitiva, in un adulto, provoca una rabbia tale che non può smettere di essere gridata (nonostante il prudente e strategico discorso dello psichiatra, che cerca di convincere Ida a moderare i toni, a recitare una parte remissiva), in un bambino questa drammatica, dissonante ridondanza non può che trasformarsi in una seria minaccia, lasciando trapelare l’ipotesi, non sorprendente, di un vero cedimento psichico. Ed è calcando così i risvolti psicologici del sistema fascista che il regista finisce per accennare al potere ambiguo della stessa immagine filmica, quel suo uso propagandistico che de-potenzia e annichilisce ogni voce contraria. Un’operazione troppo vistosamente simile a quella contemporanea dei politici/showman per non essere notata, in cui la manipolazione dell’immagine e la sua invasività permettono di raggiungere e controllare il potere anche senza coercizione esplicita. Forse si tratta di un riferimento involontario, come ammette lo stesso Bellocchio, ma la creazione, si sa, attinge a infinite e spesso inconsapevoli fonti. 

Tornando alla portata meta-cinematografica di Vincere si nota, poi, un ultimo stadio, perché Bellocchio, oltre alle immagini di repertorio, ci fa assistere ripetutamente a quello “spettacolo” che era il cinema nei primi decenni del secolo. La messa in scena della proiezione, con accompagnamento musicale dal vivo, si delinea così quale oggetto tematico vivo, smarcandosi, dopo avervi accennato, da ogni approccio nostalgico o didascalico. Il suo interesse sembra piuttosto declinare verso un rinnovato e sapiente uso della colonna sonora, possibile anche grazie alla riconfermata e proficua collaborazione con Carlo Crivelli. Il compositore romano esibisce uno stile minimalista, alla Arvo Pärt, che sembra interagire con quel travaglio che il personaggio principale esprime nel gridare la propria verità. In particolare, nella scena in cui la Dalser corre verso il cancello dell’ospedale psichiatrico, mentre all’esterno nevica, la musica si gonfia con ostinate iterazione di sottofondo, a cui si aggiungono rintocchi di campane e cori levati in un trionfalismo inquieto. L’amplificazione dello stato d’animo di Ida è efficacissimo, ne emerge tutta la terribile angoscia.  Con questo suo ultimo lavoro Bellocchio sembra quasi voler rievocare lo stesso sentimento di ribellione contro la storia, i suoi soprusi, le sue ingiustizie, visto in Buongiorno, notte, e in entrambi i casi ad ingaggiare la lotta è una donna. Scagliarsi verso quell’immutabile e pesante tessuto, però, non produce lo stesso effetto nei due film. Se Chiara, nei suoi sogni, aveva lasciato libero Moro per le strade di Roma, in un’atmosfera serena, in sordina, con una musica discreta, dai toni dilatati e vagamente magici, Ida non sogna apertamente. Semmai, si fa oggetto di un sogno, di una “proiezione”, inscritta com’è in quella superficie/schermo iper-illuminata della grata metallica. E il tono è tutt’altro che sommesso, la sua determinazione è netta e amplificata sia visivamente che sonoramente, attraendo, da un lato tutta l’irruenza tragica del melodramma, in quel gesto disperato di gettare tra le sbarre briciole della propria verità, dall’altro la doppia evocazione mistica, della luce diffusa e dell’intonazione corale, che stride con amara ironia con la drammatica clausura ambientale e psicologica.

Che dire poi della rappresentazione del corpo? Il corpo di Mussolini, punto chiave della sua comunicazione, meticolosamente e saldamente costruito nello slancio dell’apparire, perde nella seconda parte la sua carnalità (2). Quello di Ida, invece, procede verso l’annichilimento. Le atmosfere livide, dalle tonalità fredde, che caratterizzano soprattutto la prima parte e dipingono con un’impressione marmorea gli accesi chiaroscuri delle scene d’amore, si oppongono infatti alle nudità pietose e tetre delle scene del manicomio. Il corpo sensuale, attraversato da estasi passionale, sia nella sua posizione rilassata (immobile nella scena in cui Ida ha venduto tutti i suoi averi), sia nella tesa vibrazione del corteggiamento e del sesso (nelle scene amorose e quando Ida mostra le sue intimità come offerta amorosa), perde ogni suo potere, nella seconda parte, a causa dell’occultamento che subirà. E questo primo, terribile allarme che avverte di un tragico mutamento diventa evidente nella scena in cui una delle donne, nel manicomio, invita Ida a coprirsi per evitare la camicia di forza. Un avvertimento, in realtà, già lanciato da quelle istantanee delle ricoverate, che avevano spezzato il racconto precedente, ma che solo successivamente acquista l’inesorabile e scioccante semantizzazione. La nudità, tuttavia, non è lo stadio finale dell’umiliazione ai danni del corpo, esso viene anche annullato visivamente in quelle vesti amorfe, cromaticamente spente, che equiparano tutte le pazienti del manicomio e poi, definitivamente schernito e privato di ogni dignità e volontà, quando diventa primo piano, ovvero quando, ridotto a volto, è finalmente illuminato e rischiarato, ma solo per l’ultima e atroce sentenza di interdizione. La maschera stravolta di Ida, rigata dalle lacrime, stanca ed emaciata, segna proprio l’ultimo capitolo della lotta, marca il passaggio verso l’accecante rassegnazione. 

In conclusione, non si può negare quanto quel giovane Mussolini ritratto nella prima parte, quel suo coraggio, il suo spirito razionalistico (si veda la dimostrazione dell’inesistenza di Dio con la prova dell’orologio), sia apparso persino suadente al regista, ma si tratta di un fascino destinato presto a esaurirsi, degradando verso il piglio autoritario del dittatore. Un inesorabile declino di un carisma che si disperde in quelle immagini di repertorio trasformate ormai in merce caricaturale.

Note:
(1) Alberto Soncini scrive come Bellocchio, in Buongiorno, notte, adotti una "scelta estetica […] che rispecchia un uso forte (ejzenstejniano), consapevole e antinaturalistico del montaggio e del linguaggio cinematografico". Alberto Soncini, A., 2003, Il sacrificio della ragione, in "Cineforum" n. 429, p. 4.
(2) Un passaggio egregiamente descritto da Giorgio Placereani, nella sua recente recensione al film. Giorgio Placereani, Vincere di Marco Bellocchio,  in placereani.blogspot.com/2009/06/vincere.html


TITOLO ORIGINALE: Vincere; REGIA: Marco Bellocchio; SCENEGGIATURA: Marco Bellocchio, Daniela Ceselli; FOTOGRAFIA: Daniele Ciprì; MONTAGGIO: Francesca Calvelli; MUSICA: Carlo Crivelli; PRODUZIONE: Francia/Italia; ANNO: 2009; DURATA: 128 min.

 


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