La prima linea PDF 
Raffaele Pavoni   

Difficile che una pellicola sul delicato tema degli anni di piombo non diventi bersaglio di polemiche, se consideriamo da un lato la rarità di letture storiche non tendenziose di quel periodo storico, dall'altro i pericoli in cui simili film possono incorrere (giustificazionismo, superficialità, spettacolarizzazione e via dicendo). Se alle polemiche aprioristiche di alcuni opinionisti e politici aggiungiamo l'atteggiamento della Lucky Red, che nel trailer ha soffiato sul fuoco presentandolo come “il film di cui tutti parlano e nessuno ha ancora visto”, è comprensibile il nervosismo che lo stesso De Maria, in un'intervista, ha ammesso: “per tutta la durata delle riprese ho avuto continui ripensamenti, ho girato con la costante paura di non mettere abbastanza in cattiva luce i personaggi”. Affermazione che sembra quasi un'ammissione di sconfitta, se pensiamo che una delle regole non scritte del cinema impone che, una volta sul set, tutto sia già stato deciso nel minimo dettaglio, in pre-produzione. Affermazione che apre ad una lettura più “autoriale” dell'opera.

Ora che, finalmente, possiamo giudicare il film dopo averlo visto, possiamo infatti renderci conto del peso che tale nervosismo ha effettivamente avuto nella creazione dell'opera, nel male come nel bene (d'altronde, era all'apice dell'astio tra Lennon e McCartney che i Beatles hanno dato alle stampe Abbey Road). Uno dei principali meriti del film è il suo mostrare la progressiva perdita di senso insita nelle azioni di Sergio Segio e soci. L'ideologia eversiva di Prima Linea affondava le sue radici, infatti, in un complesso periodo storico di strategie di tensione e ombre golpiste: nel corso degli anni, però, il movente diventò sempre più pretestuoso, la lotta sempre più sanguinaria, la strategia politica sempre più controproducente. La macchina iniziò a girare a vuoto, il movimento si trasformò “nella prima linea di un corteo che non esisteva” (come afferma un amico di Sergio nel film). De Maria adotta, in modo tutto sommato originale se consideriamo i temi trattati, uno schema narrativo altrimenti già collaudato: esprimere la perdita di senso dell'operato di una banda criminale tramite l'inerte e gratuita reiterazione delle sue azioni. Il blitz armato al carcere di Rovigo, in questo senso, potrebbe essere paragonato all'assurdo massacro finale de Il Mucchio Selvaggio: Sergio ha già capito che la sua esistenza (anche politica) è ormai al capolinea, l'evasione di Susanna Ronconi e compagne si configura più come “un lavoro da fare” che come un atto estremo di amore da parte del protagonista. Sergio non crede più in un happy end, non crede più in un suo possibile futuro con Susanna, non crede più in un suo possibile futuro punto e basta. Già con l'inutile fucilazione del compagno che, cedendo alle pressioni delle forze dell'ordine, aveva confessato, “avevamo toccato il fondo”, afferma lo stesso Sergio.

È in questo senso che l'assalto finale alla prigione di Rovigo, scena madre e apice di un climax di cadaveri eccellenti e non (come l'anziano signore che resterà coinvolto nell'esplosione), presenta forti analogie con Peckinpah, ed è forse proprio in quest'ottica che Il Manifesto ha titolato “La prima linea: un western indicibile”; non, come sostiene arrogantemente Alberto Pezzotta su Duellanti, perché “certe persone mai cresciute e nutrite di memorie cinefile parlano di terroristi come di eroi del western”. Il nervosismo dell'autore, quindi, da un lato dà luogo ad un interessante svuotamento (esistenziale in primo luogo) dell'azione di Sergio Segio, protagonista assoluto delle vicende narrate (il film è stato, d'altronde, tratto da un suo libro, Miccia Corta). D'altro canto, però, la paura dell'autore rende il film molto cauto, calcolato, timido, sulla difensiva. De Maria non è un regista propriamente “politico”, e probabilmente non ha avuto la forza necessaria per ignorare obiezioni idiote quali “è offensivo scegliere attori belli per impersonificare terroristi”. Sembra, insomma, che l'autore sia a disagio. Disagio che si esprime, ad esempio, nel dare risalto al senso di colpa del protagonista e nel liquidare un po' superficialmente la sua rabbia come tendenza dell'epoca, figlia bastarda della contestazione di quegli anni. Lo stesso Sergio, all'inizio del film, con sguardo in macchina, ci confessa che era stato coinvolto dal clima politico di quegli anni, era cresciuto in un quartiere operaio di Milano, e poi sono venute le bombe, l'eversione fascista, e tutti erano indignati, tutti contestavano.

De Maria ha fretta di arrivare alla storia che vuole raccontare, glissa sui meccanismi (personali e collettivi) che hanno generato la rabbia (complotti, segreti di stato etc.) e su quelli che hanno incanalato tale rabbia nella lotta armata. Preferisce, al contrario, abbozzare una sorta di riassuntino storico, cogliendo l'occasione, con le parole di Sergio Segio, per pararsi un po' il culo. La paura di osare troppo spinge addirittura il film a distorcere la realtà dei fatti. Sergio Segio, a dispetto del mea culpa finale di Scamarcio, non si è mai veramente pentito, e d'altronde Prima Linea non è stato esattamente un gruppetto di giovani su di giri, ma un movimento con un discreto seguito. Immagino inoltre che i suoi leader abbiano mirato ad un coinvolgimento di massa, ricercando una partecipazione popolare che agli alienati personaggi del fillm sembra non interessare affatto. All'amico che lo accusa di non avere un seguito, ad esempio, Sergio non risponde neppure, cambia discorso. Verrebbe spontaneo fare il paragone con Buongiorno, notte di Marco Bellocchio, pellicola simile, più che nella forma, nei contenuti (e nelle polemiche suscitate). Il caso, però, ha voluto che io vedessi a distanza ravvicinata La prima linea e Ogro di Gillo Pontecorvo, film “schierato” sull'uccisione da parte dei ribelli baschi dell'ammiraglio Carrero Blanco. I due film presentano numerose affinità strutturali (piano eversivo, clandestinità, storia d'amore intrecciata alla vicenda politica, camera car); a differenza di Sergio Segio e soci, però, i guerriglieri di Pontecorvo sono mossi da una rabbia forte e riconducibile a precise efferatezze franchiste, e adottano inoltre una strategia armata precisa e ampiamente discussa. Pontecorvo, inoltre, gioca magistralmente (e molto hitchcockianamente) con le aspettative degli spettatori, generando suspence, creando apparenti intoppi, falsi allarmi, facendo svolgere l'azione dei protagonisti in un clima di angosce e incertezze dell'ultimo minuto, fantasmi del passato e previsioni future. In La prima linea tutto ciò è rappresentato ad un livello più piatto, ad un volume più basso: è un film estraneo sia alle polemiche odierne che al dibattito politico dell'epoca, formalmente buono ma un po' troppo compassato, né finta sit-com (nonostante l'autore abbia spesso lavorato per la televisione) né rivelazione dell'anno. Ai titoli di coda ti rendi conto di aver visto un film che fa ciò che deve fare, e ti accorgi poi che i critici usano aggettivi come “onesto”, “non fazioso”, “credibile”, senza eccedere né in infamie né in lodi.

Sarà colpa della paura dell'autore. Sarà che i tempi di De Maria non sono i tempi di Pontecorvo. Sarà che De Maria, a cui il “far discutere” non sembra interessare troppo, è di un'altra pasta. Sarà che è solo in epoche recenti che abbiamo capito la pericolosità dell'emulazione cinematografica. Sarà che l'espressione rigorosa di Riccardo Scamarcio, la cui recitazione è notevolmente migliorata rispetto a quella più ingessata degli esordi, resta comunque ben lontana dallo sguardo ribelle di Gian Maria Volonté. 

 
 


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