David Fincher
Zodiac
di Roberto Castrogiovanni
Zodiac è uno psicopatico. Ma uno psicopatico cinefilo. E questo dovrà pur dire qualcosa. La sua figura vive dell'immaginario cinematografico e ne è vissuto: è il prodotto instabile di un cortocircuito mediale di tipo cannibalesco, che si alimenta ingozzandosi delle proprie carni di celluloide. Zodiac in quanto personaggio diegetico s'ispira a La pericolosa partita di Schoedsack e Pichel. Zodiac in quanto icona extra-diegetica è l'archetipo immaginifico in cui approdano, nell'ordine, Bullitt, Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo! (omaggiato esplicitamente), Se7en (sorta di banco di prova per lo stesso Fincher) e chissà quanti altri ritratti di killer psicopatici e di detective ossessionati che listano l'immenso album del cinema di genere hollywoodiano.
Troppo forte la tentazione di interpretare Zodiac come un film sulla cinefilia. Sul lato morboso della "magnifica ossessione". Sulla pulsione – sempre irrisolta – che si spinge al di là dello scopico, per divenire materia e sangue. L'incipit da questo punto di vista è epifanico. Zodiac parcheggia proprio dietro l'automobile delle sue prime vittime e accende i fari. Solo adesso il film può veramente cominciare, quando la coppia, avvolta da un'impalpabile aura luminosa, si tramuta quasi in una presenza fantasmatica.
Beninteso: la pulsione che agita l'ispettore David Toschi e il vignettista Robert Graysmith è uguale e contraria a quella dell'omicida, votata anch'essa alla – impossibile – materializzazione di un'immagine. Fincher divide semplicemente il film in due metà speculari, mostrando le facce ambivalenti della "medaglia schermica": performer e pubblico, esibizionismo e voyeurismo, ossessione per il guardare e per l'essere guardati.
Ma la lettura cinefila è riduttiva. Il cerchio mediatico che attornia Zodiac si è estende per un raggio ben più ampio, e risucchia a sé tutte le pratiche della comunicazione di massa: dalla manipolazione ideologica della stampa all'onnipresenza della televisione, dalla pervasività pubblicitaria (importantissima, perché da essa ha origine il nome e il simbolo dell'assassino), ai primi timidi accenni di virtualità (il proto-videogioco Pong che gira a vuoto nella stamberga del giornalista Paul Avery). Mai un thriller aveva mostrato così poco un serial killer in azione e così tanto gli effetti psico-mediatici che questi è in grado di provocare, tracciando evidenti parallelismi con il terrorismo dei giorni nostri.
L'evanescenza di Zodiac è l'incarnazione della volatilità e bidimensionalità dell'immagine contemporanea. E, da questo punto di vista, il ricorso al digitale appare come un approdo naturale e necessario, perfetto mezzo espressivo dell'idecidibilità dello sguardo.
È finita l'epoca dei matematici gialli hitchcockiani: Fincher inquadra a volo d'uccello le città, le strade e le automobili, come se volesse seguire la lezione di "Intrigo internazionale", ma la realtà di oggi è di tale complessità che non può più essere dominata neanche dall'alto. Il thriller postmoderno porta alle estreme conseguenze la radicalizzazione del dubbio e dell'incertezza conoscitiva e ontologica. E, non a caso, la nuova generazione della detection si apre con la faccia attonita e interdetta di Song Kang-ho in Memories of murder.
ZODIAC
(USA, 2007)
Regia
David Fincher
Sceneggiatura
James Vanderbilt
Montaggio
Angus Wall
Fotografia
Harris Savides
Musica
David Shire
Durata
158 min