Philip Gröning
Il grande silenzio
di Enrico Maria Artale
"Il Silenzio eterno di questi spazi infiniti mi sgomenta".
Il famoso pensiero di Blaise Pascal esprime pienamente il senso dell'angoscia che investe l'uomo di fronte alla morte. È questo sentimento universale, da sempre al centro del pensiero esistenzialista - da Kierkegaard fino ad Heidegger -, a venire progressivamente rovesciato in quella vertiginosa meditazione metafisica che è Il grande silenzio, il film documentario di Philip Gröning. Un film che non può essere semplicemente ridotto a una straordinaria e singolare esperienza per lo spettatore moderno, che il regista definisce "bisognoso di spiritualità". Se, infatti, pensiamo ad un'opera del genere soltanto in termini fruitivi, anche elogiandola, ne disperdiamo il grande contenuto di pensiero, nonché l'enorme sforzo formale necessario per portare ad un'espressione compiuta tale concettualità. Sarebbe, invece, più illuminante concepire il film come una teologia visiva, o meglio una meditazione filosofica e religiosa al tempo stesso, su tematiche eminentemente soprasensibili, che si sviluppa però immanentemente alla realtà testimoniale dei suoni e delle immagini terrene. È in questa prospettiva che si coglie la paradossale forza narrativa del silenzio, con cui il regista racconta realisticamente il viaggio interiore e spirituale dei monaci, affrontando consapevolmente le difficoltà che tale realismo comporta. Un percorso interiore attraverso cui si svela l'idea della Grazia, condizione necessaria al compimento del viaggio stesso.

La Grazia di Dio, infatti, è qui intesa come un venirsi incontro reciproco di volontà umana e divina, destinato a partire proprio dalla fede individuale: una concezione del tutto svincolata dal senso di colpa, che costituisce quindi un profondo contraltare di quel sentimento esistenzialista proprio di Pascal e di Kierkegaard. La vita dei monaci è una vita vissuta drammaticamente, a contatto con una potenza sovrumana a cui non possono che prostrarsi ripetutamente. Ma non è una vita tragica, poiché anche di fronte all'imperscrutabilità del disegno divino la Grazia giustifica gli eventi più dolorosi e apparentemente privi di significato, com'è, per uno dei monaci più anziani, la perdita della vista. Significativamente sarà questo monaco, tra i tanti splendidamente ripresi in volto, l'unico a parlare: parole semplici, ma illuminanti per comprendere l'intera opera. Il monaco sottolinea l'importanza della vita ultraterrena come unico orizzonte di senso per quella terrena, ed espone una visione della morte serena, in cui finalmente si porta a compimento quel progressivo avvicinamento a Dio già ricercato nella vita interiore. Un incontro col divino che è sempre un duplice movimento, in cui uomo e Dio procedono uno verso l'altro, come ripetutamente testimonia la frase: "Dio mi ha sedotto, e io mi sono lasciato sedurre".
Tuttavia, il film non si limita a portare alla luce gli aspetti più profondi di questa religiosità monastica, ma riflette, con un'abilità registica straordinaria, sulla natura stessa del tempo, fondamento del pensare e dell'agire umano: un tempo dell'estasi e della ciclicità, del momento e del periodo, ben diverso da quella concezione lineare a cui tradizionalmente è associata la cristianità. L'arco temporale del film è chiaramente volto a sottolineare la ciclicità delle stagioni, da inverno a inverno, e la ripetizione speculare delle stesse immagini, all'inizio e alla fine del film, ne è un'ulteriore testimonianza. Ma questo tempo ciclico non si esaurisce affatto nell'uguaglianza di inizio e conclusione, irradiandosi invece lungo l'intero sviluppo: non tanto nella scansione delle giornate, che il film rinuncia a mostrare schematicamente, quanto nei singoli gesti, negli sguardi, nell'immutabilità del tempo naturale, nel canto gregoriano. Un tempo della ripetizione, dell'eterno ritorno, in cui la successione si fa irriconoscibile e superflua. Le immagini, talvolta nitide, talvolta sgranate, senza una logica predeterminata, testimoniano una costante dialettica tra un piano spirituale e un piano di realtà, dove quest'ultimo sembra rarefarsi per lasciare spazio al non detto, al non visibile, salvo poi farsi nuovamente concreto, luminoso. È una dialettica che si lascia indecisa: la natura, le cose che vediamo, sono veramente qualcosa di esteriore, o forse, nella condivisione dell'elemento temporale, sono affetti intimamente da un'interiorità individuale, sono colte da uno sguardo? E l'interiorità dei monaci, il buio, il silenzio, è veramente tale, o è forse qualcosa di esteriore, di naturale, di percepibile, e la vera interiorità è quella, per noi insondabile, che si apre al di là di questa soglia, in un altro tempo?
Il film mette seriamente in discussione questo rapporto tra soggettività e oggettività. Ed è in questo orizzonte di indistinzione, oscillatorio, che prende forma la meditazione sulla morte: riflessione e professione nel medesimo atto, che non è più azione, movimento nel tempo, ma movimento del tempo, durata, nel senso di un costante ripiegamento del tempo su se stesso, lungo una sorta di spirale interna, intima, per cui è la soggettività stessa a piegarsi sull'istante isolato, sul proprio tempo, inevitabilmente segnato dalla propria morte. Una tendenza al solipsismo che permette di riavvicinare i monaci ai grandi esistenzialisti, pur nella distanza che li separa. Così scriveva infatti Martin Heidegger, a cui sarà dedicato il prossimo film di Gröning: "Nella misura in cui la morte è, essa è sempre essenzialmente la mia morte".
IL GRANDE SILENZIO
(Germania, 2005)
Regia
Philip Gröning
Sceneggiatura
Philip Gröning
Montaggio
Philip Gröning
Fotografia
Philip Gröning
Durata
164 min