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Gelido e paralizzante. Il ghiaccio ricopre le strade e cambia volto alle città, rende scivolosi i marciapiedi e assottiglia il respiro. Blocca, camuffa e rallenta ogni cosa. Chicago ne è piena e i tramonti ne subiscono l'influenza. David Spritz ne illustra i mutamenti, ne prevede le conquiste, misura temperature minime e massime, occhio alle proporzioni e sguardo alle telecamere. Poi entra in macchina e il freddo gli rimane attaccato addosso, appannando i finestrini e velandogli lo sguardo.
Il riscatto è vicino, David lo sente, lo legge nell'invito di "Hallo America", lo sfiora durante le lezioni di tiro con l'arco programmate assieme alla figlia Shelley, gli si avvicina nelle sedute di terapia di coppia con la moglie Noreen. Ma che si tratti dei "Mc Nuggets" o di un pollo di "Kenny Rogers", che gli lancino una bibita o un panino, niente sembra cambiare. Qualcosa migliora, ma con enorme fatica. La volontà di combattere c'è da sempre. Quello che manca però è un vero obiettivo su cui puntare, un bersaglio da colpire senza esitazioni, oltre insicurezze e paure, in un viaggio alla scoperta della propria essenza. Bisogna eliminare ogni cosa, speranze e antiche convinzioni, delusioni e frustrazioni. Solo così si può riuscire a scorgere la propria immagine riflessa nello specchio, ormai nitida, senza macchie di cioccolato o gocce di maionese. Il passo successivo prevede il riconoscimento di questa identità finalmente scoperta, richiede perdono e comprensione, per accettare gli sbagli e camminare con orgoglio in mezzo alla gente, a cui poter mostrare senza indugi lo scintillante arco della propria consapevolezza.
È quindi la presa di coscienza di un uomo, quella che Nicolas Cage affronta nell'ultimo film di Gore Verbinski, fatta di passeggiate lungo viali innevati e di frecce scoccate contro obiettivi congelati. O piuttosto è l'invisibile lotta che un figlio combatte da anni con suo padre, scrittore di successo, con il quale essere continuamente in competizione, per guadagnare forse un po' più di rispetto per sé stesso. Non è così semplice però liberarsi dell'idea che qualcuno si è fatta di noi. Molto più facile lasciarsene imprigionare, ricoprire, soffocare, fino a diventare l'oggetto dei rimproveri e l'incarnazione di una vergogna cronica che sfinisce, assorbendo energia e forze vitali.
L'aura grigia e pesante di un credibilissimo Cage, dai lineamenti introspettivamente ammorbiditi, si isola dalle persone che gli ruotano attorno, che gli rivolgono stanche attenzioni. La sua famiglia è una scusa, il suo lavoro uno stimolo. Entrambi sono lì per costringerlo a dubitare, per permettergli di ragionare, a voce alta o in silenzio, su quanto di sé esser disposto ad accettare. Perciò i pensieri prendono corpo, si ritagliano uno spazio dignitoso all'interno delle inquadrature, riempiono le vie e si levano al di sopra dei palazzi, saturando l'aria con graduale invadenza. La città impone la sua presenza in ogni momento del film, accompagnando con discrezione i movimenti del protagonista, offrendo così possibili schemi alle sue impalpabili riflessioni. Allo stesso tempo i vicoli urbani danno uno spazio e un tempo agli altri personaggi, in altro modo difficilmente giustificabili. Perché da soli non riescono a sopravvivere, sono incompleti, soltanto abbozzati. E con essi gli enormi problemi che ognuno di loro si porta dietro, dalla complicata vita adolescenziale alla pedofilia, dalla distruzione di un matrimonio alla morte.
In The Weather Man convivono più storie, e questo affollarsi di percorsi ne complica la complessiva coerenza. Ogni tanto un colpo messo a segno, un'immagine potentemente poetica, una freccia scoccata nel ghiaccio, una chiara visione di ciò che è tanto confuso quanto lo è l'animo umano.
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