Peter Greenaway
Le valigie di Tulse Luper - La storia di Moab
di Claudio Cinus
Tulse Luper vuole catalogare tutto. Ha l'ambizione di racchiudere il mondo nelle sue valigie. Si può dire che sia un archivista dell'intero Novecento. Archiviare significa voler conservare e preservare ciò che è stato. Curioso che questo personaggio così legato al passato sia stato portato sullo schermo da Peter Greeneway, un signore proiettato verso il futuro, che si propone di rinnovare il linguaggio audiovisivo, sostenendo da tempo che il cinema è morto: un argomento abusato, ma sempre buono per qualche sterile polemica. Tulse Luper, la sua creazione, ha una vita avventurosa e movimentata, così lunga da necessitare di una trilogia; nel primo episodio lo seguiamo nella sua infanzia in Galles, poi in trasferta americana, presso una comunità di mormoni nel Colorado, e infine di nuovo in Europa, in un'Anversa alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale.
In questo primo arco temporale, la vicenda di Luper è caratterizzata dalla frequente condizione di prigionia. La smania di conoscenza di Luper, che fa lo scrittore e giornalista, viene mortificata in continuazione: dal padre che punisce le sue bricconate chiudendolo in casa, dai mormoni che, infastiditi dalla sua presenza, lo mandano in galera, dai nazisti che lo sequestrano. Egli vede limitata la sua libertà dai carcerieri, e anche lo spettatore può sentirsi prigioniero delle scelte artistiche di Greeneway, che mettono continuamente in gioco il ruolo reciproco dell'autore e dello spettatore. Il primo offre una molteplicità di argomenti che il secondo ha la possibilità di recepire; ma si sfiora sempre il rischio che il ruolo dello spettatore diventi di fruitore completamente passivo, se l'autore impone ciò che deve giungere, o peggio se eccede nella molteplicità di input impedendone, di fatto, una selezione. Lo spettatore riceve immagini che si sovrappongono, finestre che si aprono e si chiudono, voci che si accavallano e si ripetono, scritte che occupano lo schermo e si relazionano con le immagini o con i suoni. Ritrova la struttura dell'ipertesto, in cui le informazioni sono presentate con ogni modalità possibile. Ma se la forma è quella, la sostanza è differente, poiché esso si fonda sul principio che l'utente possa creare dei percorsi da seguire autonomamente.
L'idea-chiave di questo film non è nella mole di messaggi che vengono immessi, nella difficoltà di coniugarli, e di recepirli se lo schermo non è abbastanza grande. Piuttosto, si pone il concetto di tempo come grande limite invalicabile del cinema. Non si riesce a recepire tutto ciò che passa per lo schermo, perché scorre troppo materiale troppo in fretta. Lo spettatore può scegliere cosa guardare, se nello schermo compaiono contemporaneamente varie finestre, ma la sua scelta è fortemente limitata dal fattore temporale che impone delle priorità, ad esempio dell'immagine sul suono, e del suono sul testo, impedendo la realizzazione della modalità ipertestuale. Un film ha una sua durata, e arriverà sempre alla fine, inevitabilmente, perché il tempo è asimmetrico. Come il concetto di direzionalità del tempo distingue gli eventi tra passati e futuri, così Greeneway sembra cavalcare questa nozione per spiegare le differenze tra un cinema passato e uno futuro. Il "vecchio cinema" apparterrebbe alla classe del passato, in cui gli eventi (i film) sono inaccessibili anche se hanno lasciato una traccia presente (il ricordo) nello spettatore che ha terminato la sua visione; il "nuovo cinema" apparterrebbe al futuro, in cui tutti gli eventi sono possibili e dipendono dalla volontà del soggetto, ma non hanno alcuna traccia nel presente.
Insomma, per arrivare ad un cinema che superi il limite del tempo, bisognerebbe proprio eliminare il film, lasciando allo spettatore solo le possibilità e le potenzialità, magari attraverso altri mezzi espressivi. La morte del cinema, insomma. Forse il cinema comincia ad essere scarsamente moderno, se paragonato alle aspettative del pubblico, di interattività e "controllo" del tempo, o almeno questa sembra l'idea di Greeneway; che però, più che proporre un esempio di cinema nuovo, forse usa il suo film solo per esprimere alcuni difetti del cinema contemporaneo. Ciononostante, non c'è ancora bisogno di chiamare né il dottore, né il becchino, perché il caro, vecchio cinema non è affatto morto, e neanche moribondo. Continuerà per la sua strada nonostante i frequenti malauguri che gli vengono lanciati. Il film di Greeneway è buono per le astrazioni, per la teoria, ma in fondo sempre cinema rimane.
TULSE LUPER SUITCASES: THE MOAB STORY
(Gran Bretagna, Spagna, Italia, Lussemburgo, Olanda, Russia, Ungheria, 2003)
Regia
Peter Greenaway
Sceneggiatura
Peter Greenaway
Montaggio
Elmer Leupen, Chris Wyatt
Fotografia
Reinier van Brummelen
Musica
Borut Krzisnik
Durata
125 min