Matteo Garrone
Primo amore
di Marco Capriata
Il cinema di Garrone rivela un metodo di lavoro scrupoloso basato sulla rielaborazione dell'evento cronachistico, su cui ricostruire storie di un'umanità imprigionata in una geografia delocalizzata e spersonalizzata, dove il fuori fuoco della m.d.p. è la sintesi esatta di un'immagine che tende a deidentificarne i protagonisti; figure solitamente rinchiuse in gabbie metaforiche e architettoniche, che in questo nuovo lavoro vengono collocati in una zona di confine, qual è il nord est, compendiata dal luogo del primo incontro tra i due protagonisti: una stazione di autobus, terra di nessuno in cui partono e giungono esistenze di passaggio, per condurci, come sempre, tra le lande di un territorio identificabile solo dall'idioma di chi lo abita.
Il regista gioca sulle similitudini spaziali, assimilando luoghi apparentemente distanti nella loro valenza iconografica, ma riconducibili ad un preciso progetto urbanistico, ad un rigore geometrico predefinito. È l'architettura degli edifici l'elemento di sicuro fascino del cinema del nostro autore, il cui sguardo riesce ad annullare ogni stereotipo geografico di agevole riconoscimento, per dislocare le storie ivi narrate e ricondurle ad una dimensione atemporale e slegata dal territorio di provenienza. È come se i protagonisti si rinchiudessero coscientemente in recinti autoimposti, in cui anche uno spazio aperto, libero da vincoli architettonici, viene delimitato attraverso precise intelaiature invisibili agli occhi, ma percepibili dall'animo.
Le storie raccontate da Garrone sono relazioni d'amore dettate da una dipendenza psicologica patologica, in cui l'identità dell'individuo debole si annulla progressivamente per fondersi in quella del più forte, riproducendo in questo contesto un ménage, che solo lontanamente rammenta le violenze domestiche di certo cinema orientale. Il regista non si concede eccessi di sorta, egli costruisce la tragedia con metodo e ragionato calcolo, raffrontando l'attività di orafo di Vittorio, al lavoro di cesellatura operato sul corpo di Sonia, per renderla simile ai monili stilizzati da lui realizzati e conservati nel suo laboratorio. Vittorio ricerca con maniacale certezza un'essenza che avverte in Sonia, corpo da plasmare e modellare secondo i propri principi di purezza, affermati dal suo io interiore come pretesa morbosa di pulizia, atta ad ottenere un organismo polito di cui godere.
I protagonisti di Garrone sono figure solitarie perse nella geografia confusa del loro territorio d'origine, in cerca di altri individui, da conservare al proprio fianco così come sono nella loro bellezza, oppure da modellare per renderli conformi ai propri canoni estetici, giungendo ad una controdipendenza nociva per il loro fragile equilibrio emotivo, che non può evitare l'esplosione di pulsioni negative ed autodistruttive.
La fascinazione provata nel precedente L'imbalsamatore, più equilibrato e calibrato nella sua descrizione clinica di una richiesta d'amore disperso in una geografia asfittica e alienante, viene meno in questo nuovo lavoro, in cui si arresta ad un livello puramente intellettivo, incapace di oltrepassare le coordinate cartesiane tracciate da uno sguardo entomologico, rimanendo ingabbiato in un cinema d'autore, ben costruito e ragionato come ogni sua inquadratura, ma questa volta inadeguato a trasmettere una calda emozione. Garrone è come se avesse elaborato un processo di tassidermia del proprio stile, mantenendolo su un rigore, che per quanto apprezzabile, non riesce ad appassionare e a far riflettere sulla realtà circostante, lasciando alla fisionomia corporea dei protagonisti, il compito di consegnarci quell'inquietudine contemporanea, trattenuta tra le maglie della gabbia architettonica e filmica da lui stesso intessuta.
PRIMO AMORE
(Italia, 2003)
Regia
Matteo Garrone
Sceneggiatura
Vitaliano Trevisan, Massimo Gaudioso, Matteo Garrone
Montaggio
Marco Spoletini
Fotografia
Marco Onorato
Musica
Banda Osiris
Durata
100 min