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Shinya Tsukamoto, autentico Autore Totale (in A Snake of June firma regia, sceneggiatura, fotografia, scenografia, montaggio, ed inoltre è produttore e interprete di Iguchi) porta a compimento la sua opera più sofferta e inseguita, dopo una gestazione durata più di dieci anni. Giugno, la pioggia, che incessante cade, leviga e lucida i corpi dei due protagonisti Rinko e Shigehiko e l'ambiente asettico e minimale che li circonda.
Il regista attira e guarda compiaciuto le sue prede, in un turbine di eros e paura, dove balza fin da subito agli occhi l'originale scelta cromatica: un bianco e nero in scala di blu, che amplifica il senso di freddezza e glacialità che pervade gli ambienti e i legami dei protagonisti.
Lei, Rinko, fa la consulente telefonica presso un istituto di igiene mentale. Lui, Shigehiko, è un uomo d'affari ossessionato dalla pulizia. Da tempo non ha più nessun contatto con la moglie, di cui non tollera odori e secrezioni corporee.
All'improvviso s'inserisce nel ménage coniugale Iguchi, che fa pervenire a Rinko una scatola con la scritta "I segreti di tuo marito" con le fotografie di lei che si abbandona ad intimi momenti di autoerotismo.
Attraverso il ricatto e l'inganno, Iguchi porterà la donna a riscoprire i desideri più profondi e, attraverso una vera e propria liberazione catartica, la coppia saprà riscoprire una passione ormai sepolta. Come una parabola, alla morte del corpo (sterilizzato, da Shigehiko) e alla negazione delle fantasie (soffocate, da Rinko) si sostituisce la rinascita della vita coniugale e sessuale dei due, malgrado alla fine appaia ancora l'ombra della morte e della malattia, con la scoperta del cancro di Rinko.
A Snake of June ripropone tutti i temi che hanno contraddistinto la filmografia del regista giapponese, dal cult Tetsuo al più recente Gemini: il corpo umano, le sue degenerazioni e contaminazioni, la metropoli, la malattia, la perversione, il desiderio di vivere. E' lecito parlare, a proposito di A Snake of June, di meta-cinema, dando rilievo anche al potere dirompente e salvifico che il regista accorda al dispositivo cinematografico: come il suo alter ego Iguchi, il salvatore generosamente perverso che, con l'inganno e la seduzione del suo voyeuristico occhio fotografico, apre la strada della salvezza a Rinko, così Tsukamoto usa la macchina da presa come un serpente, per portare lo spettatore a scoprire il più profondo e perverso universo delle passioni, e attraverso la fascinazione delle immagini, condurlo alla salvezza, cioè alla conoscenza e gestione del corpo e delle sue degenerazioni.
Il film è diviso in tre parti (lei, lui ed ambedue): la struttura è rigorosa, essenziale, ogni elemento è fondamentale, è un tassello indispensabile nella creazione del mosaico scarno e stilizzato che Tsukamoto realizza.
L'organizzazione, complessa ed ermetica, è ritmata da inquadrature pittoriche e contemplative, alternate da un montaggio spesso frenetico, da veri e propri scatti di follia.
Sintesi estrema e nitida dalla visionarietà dell'autore: pochi attori, luoghi circoscritti, durata condensata, il tutto sublimato da scelte stilistiche al servizio di una visione autoriale originale e ispirata. L'impersonale metropoli giapponese è nobilitata, per esempio, da una scelta cromatica originale e da una fotografia sgranata: il regista ha un controllo assoluto sulla messa in scena, sul gioco delle luci, sul montaggio e sulle riprese con la camera a mano. L'immagine che ne risulta è sempre mediata, un mero strumento di seduzione e tentazione; lo sguardo è filtrato, come lo sono tutte le relazioni del film, che trabocca di oggetti e feticci: telefoni, vibratori, macchine fotografiche, in uno scenario postmoderno e artificiale.
Così Tsukamoto dà la sua visione della modernità, dove il confine tra il visibile e l'oscuro risulta difficile e ambiguo, fino a scomparire, abbattendo ogni giudizio morale: grazie alla "perversione", infatti, Rinko (e quindi lo spettatore) può ritrovare la felicità.
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