Sofia Coppola
Lost in Translation - L'amore tradotto
di Claudio Cinus
Lost in translation è un titolo molto bello, di quelli che in sole tre parole possono racchiudere un universo di significati e interpretazioni. Per quanto oggi si possa comunicare con chiunque ad ogni ora e in ogni dove, qualcosa si perde sempre; per quanto ci siano vaste fette di mondo che cercano di somigliarsi e di far somigliare le altre a sé, con la persuasione o con la forza, ci sono delle diversità che appartengono ad ognuno, e che non possono essere trasmesse senza smarrirne una parte. È come dire che ognuno di noi ha qualcosa che non può esprimere, che appartiene solo a se stesso, il che ci rende unici, ma proprio perché unici rischia anche di renderci soli.
Sono soli, anzi desolati, i due protagonisti di questo film: Bob Harris, un attore americano di mezza età in trasferta a Tokyo per girare uno spot pubblicitario ben pagato (Bill Murray), e Charlotte, una giovane sposina, anche lei americana, che ha seguito nella stessa città il marito fotografo con il quale il rapporto non è più idilliaco (Scarlett Johansson).
Lo spettatore entra a Tokyo accompagnato da Murray che, dal finestrino del suo taxi, guarda una città enorme, palazzi ricchi di luci e incontenibili in un solo sguardo. Una scena simile a tante altre già viste, solo una carrellata introduttiva di una città vista dall'interno di un'autovettura; ma Sofia Coppola è capace di dare nuova vita a momenti anche abusati, come appunto questo genere di stacchi che di solito servono come tappabuchi, grazie al fatto che non usa questa sequenza come semplice appunto geografico o temporale, ma come manifestarsi di un'emozione: lo stordimento per un mondo a "dismisura" d'uomo, e la paura di non comprendere, e contenere, ciò che si sta osservando. Basta questa prima breve sequenza, accompagnata da una musica dolce e avvolgente, e si capisce che il film avrà una particolare sensibilità, non banale, nel trattare i suoi temi.
È un film che prende pian piano, perché all'inizio disorienta, proprio come il trovarsi in una città sconosciuta. L'attore americano comincia la sua attività di promozione del whisky a cui presta la faccia, e la ragazza si impegna per trovare entusiasmante la sua vacanza, ma il marito è sempre al lavoro e lei comincia a subire lo sconforto della solitudine e dell'inadattabilità. Entrambi alloggiano in un hotel lussuosissimo, che può guardare la città solo dominandola dall'alto perché nei primi 40 piani ci sono uffici, e lì, complice il comune jetlag, vengono a contatto, come scorgendo l'uno negli occhi dell'altro il bisogno di un punto fermo in un mondo che ruota ad una velocità diversa.
Ma sulla natura del loro rapporto è inutile discutere, perché nella traduzione dal sentimento al linguaggio si perde tanto, legati come si è alle convenzioni, alla paura delle reazioni, al "chissà cosa dirà la gente, mia moglie, mio marito". A Sofia Coppola non interessa descrivere fatti, ma suggerire stati d'animo; volendo concentrare tutte le azioni che accadono nel film, infatti, si potrebbe ridurre la trama all'osso, ma nel provare ad esporre il percorso emotivo dei due personaggi non basterebbe lo spazio.
È un mistero da decifrare, l'espressione stupita e beffarda di Bill Murray, che nella sua carriera cinematografica ha sempre mostrato quella faccia capace di lasciarsi scivolare addosso di tutto, dai fantasmi alle marmotte, da Ed Wood alla lingua giapponese che sembra fatta apposta per farsi prendere in giro; mentre il corpo morbido di Scarlett Johansson sembra imprigionato da una gabbia che ne limita la vitalità e ne mortifica l'esuberante bellezza. Questi due personaggi sono quasi costretti ad alienarsi assieme, perché le persone che incontrano, sia giapponesi, sia americane, non rispondono alle loro necessità. Così decidono di volersi sentire perduti insieme, circondati da un paesaggio che comunica un sentimento indefinibile di lontananza, di non accettazione, aiutato in questo dalle architetture: tanto quelle moderne, così imponenti sia dall'alto che dal basso, che diventano "automonumento", cioè edifici che sono monumenti solo in virtù della loro mole e dell'apparenza luccicante, ma che dentro sono desolatamente vuoti di significati, anche se riempiti di arredamenti hi-tech, di bar, piscine, palestre, locali di karaoke, tutti fotografati con colori gelidi; quanto quelle antiche, che gli occidentali possono anche ammirare, o viceversa odiare, anche solo in virtù del proprio umore momentaneo, ma che non potranno mai davvero comprendere perché qualcosa si lascia indietro, nel cercare di far propria una cultura.
E così, isolati in un ambiente che non li può accogliere, circondati da persone che però sono troppo lontane, col corpo o con la mente, e impediscono loro di essere le persone che desiderano essere, i due protagonisti fanno crescere tra loro qualcosa che forse è amore, forse amicizia, forse mutua necessità, forse qualcosa di intraducibile. Il nodo cruciale è molto semplice: un rapporto tra due persone, che ha il coraggio raro di essere mostrato senza alcuna inutile esplicitazione, sfruttando anzi proprio quell'intraducibilità dei sentimenti che rende assolutamente personale ogni esperienza che si vive. Il film può comunicare molto, ma non tutto, e lascia solo intuire quali siano i desideri dei personaggi, che forse non potranno mai trasformarsi in realtà, ma che proprio per questo hanno il sapore dolceamaro della malinconia; e persino lo spettatore, sul finire della storia, potrà provare una certa nostalgia per quella Tokyo che, all'inizio del film, scorreva estranea e distante vista dall'interno di un taxi.
LOST IN TRANSLATION
(Usa, 2003)
Regia
Sofia Coppola
Sceneggiatura
Sofia Coppola
Montaggio
Sarah Flack
Fotografia
Lance Acord
Musica
Kevin Shields
Durata
102 min