Lars Von Trier
Dogville
di Francesco Rivelli
Dogville, la città dei cani.
L'eloquenza del nome associata all'intenzione di farne il primo capitolo di una trilogia sull'America fornisce già molte indicazioni sul carattere e gli intenti di quest'ultima fatica di Lars Von Trier.
Dopo la commozione e i trionfi di Dancer in the Dark, Cannes ha riservato però un reverente quanto distaccato saluto di fronte ad un'opera che potremmo definire, per così dire, filosofica. E' di filosofia, infatti, che Von Trier discorre quando immagina questo paesino sperduto fra le Montagne Rocciose, abitato da poche anime semplici, ma rozze, la cui quiete è sconvolta dall'arrivo di una misteriosa fanciulla in cerca d'aiuto. La degenerazione dell'ospitalità dei suoi abitanti costituisce il punto di partenza per il conseguente trattato filosofico non solo sulla natura umana, ma soprattutto sul modo con cui affrontarla.
La bestialità dell'uomo va repressa ed educata o accettata quale istinto naturale? Questo ci chiede il regista mentre porta a spasso il proprio tenero e docile agnello, una Kidman in sensuale versione pastorale, a suscitare l'animalità degli abitanti. Perché è dove c'è innocenza e debolezza che l'aggressività si scatena, per frenarsi invece di fronte alla forza, al potere.
Di fronte ad un paesaggio ideologico di tal fatta, il mirino è rivolto più specificatamente all'America e alle sue ipocrisie, i valori che celebra e le verità che nasconde.
La sensazione è che il film spogli da una parte la scenografia con il gesso e l'immaginazione, per appesantire invece dall'altra il lato semantico con una morale che suona alla lunga come una predica.
Se in precedenza (Le onde del destino, Dancer in the dark) la tragedia veniva letta in chiave patetica e commovente, ora diventa il presupposto teorico per definire una disquisizione sull'etica, tutt'al più per una denuncia.
Tutto ruota attorno ad una simbologia che nasconde nella giovane e bella fuggiasca il fulcro di più livelli interpretativi: Grace è, nel senso più letterale, l'ospite che, come il pesce, a lungo andare puzza, ma è anche la coscienza, della quale gli uomini si servono per nutrire la propria ipocrisia, ma sistematicamente umiliata dall'impellenza degli istinti; è soprattutto l'etica, la visione caritatevole dell'umana condizione, che si contrappone alla morale (l'educazione che il padre-gangster infligge alla società). Per gran parte del film tutto procede secondo i dettami stilistici propri di Von Trier: i soprusi, le ingiustizie, la vittima femminile che non accenna a ribellarsi, lo spettatore lasciato nel finale in balia delle forti emozioni suscitate.
Ma la conclusione si discosta con un taglio netto, inerpicandosi sui terreni dell'orazione, del didascalismo più infelice, e rovinando così non solo la scena della mitragliata, che poteva rivelarsi un finale di grande potenza evocativa, ma l'intero equilibrio dell'opera creato da una veste fiabesco-teatrale e una sceneggiatura allegorica. Quell'eccesso di parole, di spiegazioni, si avverte come una sciagurata stonatura che schizza fuori al culmine di un acuto, rovinando un intero concerto.
E' così che anche le scene degli stupri, rappresentate con lo stesso distacco col quale da piccoli eravamo soliti vedere Cappuccetto Rosso mangiata dal lupo o Cenerentola umiliata dalle sorelle, ulteriormente accentuato dalla splendida voce fuori campo di Albertazzi che ci riporta indietro di un paio di secoli, appaiono però sporcate a ritroso da quell'ansia di declamazione, quasi fossero state concepite come argomentazioni e non più come soffice materia d'emozione.
Non mancano comunque scene di alta poesia, a dire il vero istanti visivi che lasciano il segno, come un'esausta Grace che viene ripresa con pietà e mestizia chapliniane mentre si avvia incatenata verso casa, oppure l'immagine conclusiva del cane cieco che abbaia rabbiosamente verso una cinepresa in ascesa verso l'alto. A dimostrazione che quando parla meno Von Trier sa fare cinema.
DOGVILLE
(Danimarca, Svezia, Francia, Norvegia, Olanda, Finlandia, Germania, Italia, Giappone, USA, 2003)
Regia
Lars Von Trier
Sceneggiatura
Lars Von Trier
Montaggio
Molly Marlene Stensgård
Fotografia
Anthony Dod Mantle
Musica
Peter Grant
Durata
135 min