Bernardo Bertolucci
The Dreamers
di Lorenzo Corvino
Film interessante questo di Bertolucci, in cui si prende per mano un trio di esseri umani così differenti tra loro per sensibilità e modo di percepire il mondo, che trova la sua zona franca, ove incontrarsi, nell'universo Cinema, discorrendo sulle diverse interpretazioni che una stessa opera filmica può generare nelle persone. Cosa che oggi non accade più molto spesso tra i giovani le cui distanze ideologiche o caratteriali non si incontrano più in un'immagine, bensì in internet, nell'anonimato che ti permette di cambiare idea ogni volta che ti colleghi con la rete. Invece in quel gioco continuo di sguardi tra cinema e sessualità si chiede una precisa scelta di campo, Chaplin o Keaton, oppure come faceva dire Godard – tanto elogiato da Bertolucci con questo film – in "Week-End: una donna un uomo da sabato a domenica", Mao o Johnson.
Non è facile essere obiettivi su questo film che effettivamente non entusiasma, ma di cui si percepisce un sottotesto che non dispiace, forse c'è poco carattere nella regia che l'autore mette a disposizione di molti primi e primissimi piani dei volti, ma anche di tutte le altre parti del corpo, le quali guardano e scrutano al pari degli occhi indiscreti e bramanti; parti che sono vive e reagiscono e che si eccitano.
Ed è qui che si coglie proprio il perno della struttura filmica: l'eccitamento dei sensi che quando passa attraverso gli occhi può essere solo razionale – si pensi alla lucida osservazione sugli spettatori da prima fila che vogliono catturare per primi le immagini e che non le accattano se piccole come francobolli là giù in fondo ove osano le coppiette; o ancora si guardi a tutto ciò che chiama in causa il pudore e l'educazione ricevuta, come quando l'amico americano scorge, ergo soltanto vede, i due fratelli nudi a letto insieme, per cui si scandalizza; ma perché li ha visti con gli occhi, veicolo di razionalità, non li ha ancora sentiti con i sensi –; invece quando l'eccitamento dei sensi passa attraverso il corpo e il tatto – ed è in queste circostanze che i dettagli dei bei corpi, così veri, di attori veri analogici, con le impurità e le imperfezioni che per sempre si porteranno nella loro vita, che nessun trucco potrà eludere, che ritroveremo in ogni loro performance attoriale e che non potranno che aumentare nel corso della loro maturazione fisica, man mano che perderanno di dosso la giovinezza – ebbene quell'eccitamento che passa attraverso il toccarsi dei corpi, allora, smette di essere percepito razionalmente e diventa cosmopolita di tutte le vibrazioni che un orgasmo è in grado di provocare, in quegli istanti di piacere in cui, anche il sangue o i capelli che bruciano alle punte di una fiamma di candela, sono pure epifanie, rivelazioni di grazia.
Dunque nell'interno dell'appartamento convivono due sguardi, quello della razionalità vacillante (eccitamento da vista) e quello dell'emozione incalzante (eccitamento da tatto). Tuttavia dalla razionalità ci si può prendere una pausa, ma poi si rientra sempre nei ranghi, o per nostra volontà o perché costretti: essa alla fine domina sempre; l'emotività prende il sopravvento invece in quelle pause, ma resta pur sempre qualcosa di profondamente instabile che rischia di annientare le barriere del vivere civile. Ed ecco come entrano la politica e la Storia in questo film: dalla finestra.
Ossia entrano come termini che rischiano di sporcare la purezza giovanile dei ragazzi – benché possano apparire corrotti e tutt'altro che puri a causa del loro edonismo sessuale, in realtà non stanno davvero facendo del male a nessuno dopotutto – ma non appena la strada entra in camera e le pietre ti invitano a seguirle, in quei frangenti di emotività bizzosa si rischia di oltrepassare il punto di non ritorno, come i due gemelli faranno lanciando la bottiglia incendiaria. Ecco il peccato originale su cui è giusto che il film termini: su quella che potrebbe essere la soggettiva dell'amico americano rimasto al di qua; dunque un'immagine che per incarnare il punto di vista di qualcuno si fa sguardo e quindi ripropone quel vedere con gli occhi che è il tramite, come sopra si è detto, di visioni esclusivamente razionali: e quale migliore veduta razionale di un campo totale, che quindi ci costringe a giudicare, essendo anche l'ultima figura espressiva che il film ci offre e che perdura dietro i titoli di coda, lasciandoci sulla strada e non al chiuso di un appartamento.
C'è da congratularsi con Bertolucci almeno su un punto: l'essere riuscito a rileggere in modo diverso la Parigi che altre volte ha fotografato, peraltro proprio in quell'arco di anni qui protagonisti contestuali. Doveva essere lui a farlo, lui che aveva raccontato prima di tutti la rivoluzione nel 1964 con Prima della rivoluzione.
Le scelte di regia sono più al servizio della narrazione e dei caratteri dei personaggi che indirizzate verso un'enigmatica intellettualità dell'insoddisfazione umana, quali si trovavano in Ultimo tango a Parigi, e per questo veramente ci potrebbero, tali scelte, far pensare a quel celeberrimo Atto (mancato) che non vedremo di Novecento. Fornendo così un ritratto nostalgico di quel periodo, un portrait che ha pure un carattere popolare al pari di Novecento, secondo come lo avremmo probabilmente voluto vedere noi che non abbiamo vissuto simili anni, Bertolucci, maestro per tanti futuri registi cinefili del Belpaese, ha rinunciato a fare del solipsismo cinematografico.
Forse, e non è da escludere, questa maniera di intendere lo strumento demiurgico del cinema non è stata da Bertolucci messa in pratica, qui, per la ragione che oggi è molto più difficile poterla produttivamente imporre, e non di certo perché sia una eventualità non valida: dopotutto uno dei registi che Bertolucci apprezza di più è proprio Bresson, che con i suoi film ha fatto del solipsismo cinematografico, quando pascevano nell'universo Cinema coloro che erano disposti a seguirlo come spettatori, semplicemente pronti ad ammirarlo. E non deve essere tanto male quel modo di fare cinema se poi chi lo ha guardato e studiato ha a sua volta fatto cinema ed è diventato un Bertolucci.
E la distanza tutta, che esiste tra le scelte narrative di questo film e il rigore enigmatico della maniera Bresson, si misura proprio nel finale di The Dreamers, in cui il personaggio di Eva Green tenta il suicidio, mentre nel montaggio si innestano le immagini della scomparsa della ragazzina di Mouchette – Tutta la vita in una notte di Bresson, appunto: lì nel film del 1967 la ragazzina muore "giocando" rotolandosi giù verso uno stagno, qui la protagonista in un gesto melodrammatico e patetico tenta di asfissiare se stessa e i suoi due amanti con il gas, ma non ci riesce proprio perché oggi, oramai nel XXI secolo, ci continuano a dire che le cose sono diverse, che tutto è cambiato e Bertolucci – che come detto sopra ha scelto la linea popolare e narrativa – non può concludere alla Bresson; sa che non è più possibile alla ragazza morire come la campagnola Mouchette.
Già ci avevano provato i Dardenne nel 1999 con Rosetta a far morire la protagonista per asfissia da gas in un beffardo e umoristico tentativo fallito di suicidio in cui la bombola del gas, tale è la povertà, si esaurisce prima di aver atteso allo scopo. In quanto qui, in The Dreamers, certe scelte egoistiche non sono più ammesse, la Storia entra dalla finestra dritta nella stanza e ci costringe a congedarci dalla concezione egocentrica del mondo, allorquando tout le monde grida dans la rue e il pretendente suicida si ritrova ridicolizzato.
Citando una quindicina di film l'autore sa di aver dovuto rinunciare a creare di par suo delle scene che per lo spessore o per l'originalità possano entrare nella storia di quest'arte, lui che ha il talento per farle; anche quella più emblematica del film, in cui Eva Green emula la Venere di Milo, è in fondo una citazione, seppure scultorea.
Un rammarico resta: non aver trovato, eppure le occasioni c'erano, il momento per citare in qualche modo Pier Paolo Pasolini, l'autore che ha lanciato Bertolucci consegnandogli il soggetto de La Commare Secca, suo esordio nel 1962. E' vero pure che Bertolucci ha fatto delle scelte precise nelle citazioni, al fine di prendere quei film che allora ai tempi della Nouvelle Vague erano dei punti di riferimento per i giovani, tuttavia qui non si vuole dire che avrebbe dovuto inserire delle inquadrature dai film di Pasolini, ma, ad esempio nel finale, quando l'amico americano cerca di dissuadere Theo dall'andare a lanciare la bottiglia incendiaria, perché loro tre sono per la pace, quella no, avrebbe avuto l'occasione di citare almeno il Pasolini poeta, arguto osservatore della società, che nella composizione sugli scontri di Valle Giulia a Roma (Il PCI ai giovani è il titolo) faceva notare come non siano i poliziotti i nemici, dato che spesso sono loro i veri proletari che fanno quel mestiere per campare, mentre chi finge di fare il rivoltoso è un borghese a cui il padre stacca prontamente assegni. Proprio come accade ai due gemelli francesi che, poco prima di scendere dans la rue, avevano appena ricevuto il prezioso biglietto di carta. Sarebbe stato forse un torto alla verosimiglianza, ma di certo sarebbe stato gradito sentire un americano citare involontariamente in pedice al film le parole di Pasolini.
"…(l'essere odiati fa odiare). Hanno vent'anni, la vostra età, cari e care….", scriveva il Poeta in quell'epoca che fu.
THE DREAMERS
(Inghilterra, Francia, Italia, 2002)
Regia
Bernardo Bertolucci
Sceneggiatura
Gilbert Adair
Montaggio
Jacopo Quadri
Fotografia
Fabio Cianchetti
Durata
130 min