Chi ci libererà da noi stessi? Il male e l’abisso umano in Edmond
di Umberto Ledda
In quel piccolo capolavoro di Werner Herzog che è Grizzly Man, il regista tedesco rompe ad un tratto uno dei canoni del cinema documentario, quello del regista come osservatore imparziale: lo fa verso la fine, dicendo la sua sulle convinzioni del suo protagonista Tim Treadwell, esploratore animalista pazzo e sedicente amico degli orsi. A fronte di una visione, quella di Treadwell, di ingenua fratellanza universale, Herzog commenta conciso: "I believe the common denominator of universe is not harmony, but chaos, hostility, and murder". Il concetto è vecchio come il mondo, ma la precisione e l'asprezza dell'esposizione lo rendono utile, se non illuminante. Ora, Grizzly Man con Edmond non c'entra praticamente nulla: eppure caos, ostilità e omicidio (proprio questi termini più di qualsiasi altro) descrivono alla perfezione il film di Stuart Gordon (regia) e David Mamet (sceneggiatura). Edmond è uno di quei film che meglio scavano nelle dinamiche violente che regolano le interrelazioni umane, in virtù di una struttura compatta e oltranzista e di una analisi sociologica e filosofica di grande lucidità, entrando a far parte di quella ristretta serie di pellicole in cui la trattazione diretta dei massimi sistemi non si risolve in pedante e saccente retorica.
Parlando di Edmond è necessario partire dallo scheletro, dalla struttura con cui è costruito. Si tratta di un film dalla sceneggiatura solida, affidata ad un incedere a spirale discendente, antitetica alla tradizionale strutturazione in tre atti ma comunque tripartita. Dopo un breve cappello introduttivo, dove si accenna alla vita di Edmond - una vita normale, dove né il grigiore né il vuoto sembrano superare il livello di attenzione - il film inizia a seguire la ribellione notturna del protagonista, dividendosi in tre segmenti, o gironi (il riferimento al Salò di Pasolini è casuale, ma non occorrerebbero forzature per trovare tracce di parziali filiazioni): il primo è quello legato alla sessualità, con Edmond alla disperata ricerca di un corpo femminile ad un prezzo conveniente; il secondo è quello della violenza, dove il protagonista scarica la propria rabbia su qualsiasi cosa lo avvicini e gli rivolga la parola; il terzo è quello dell'umiliazione, dove il gioco è rovesciato e Edmond subisce ciò che aveva fatto subire, fino all'annullamento. Tutti i segmenti sono dominati da una struttura rigidamente schematica, geometrica, che procede per un'iterazione ossessiva che solo l'estrema accuratezza dei dialoghi non fa sprofondare nella monotonia. Sia all'interno dei tre segmenti che nel suo insieme, Edmond è un film di variazioni sul tema, è un film di incontri, in cui si ripete ad ogni scena uno stilema preciso: avvicinamento-scontro-discesa ad un ulteriore livello di violenza, e così via. È curioso notare come la ripetizione assuma talvolta venature umoristiche, quando non comiche - nella sua ricerca di sesso, fra prostitute, rivoltanti peep show e bordelli, Edmond continua a contrattare sul prezzo, anche nei momenti più improbabili -, in uno spiazzamento da teatro dell'assurdo che non fa che acuire il senso di totale straniamento.
In questa struttura, che impone come unica possibilità di avanzamento l'inabissarsi, Edmond sembra giocare un ruolo ottuso, se non passivo: non ottiene dai suoi incontri informazioni utili (alla seconda prostituta, sarebbe il caso di capire come vanno le cose e agire di conseguenza, senza impelagarsi in inutili discussioni pecuniarie), ma solo altra rabbia, altra volontà di violenza. È un elemento importante per afferrare l'alterità del film di Gordon/Mamet rispetto al cinema attuale: il suo omonimo protagonista non cambia, non comunica con l'ambiente, non matura mai, in strafottente disaccordo con la regola classica. E questo per il semplice motivo che Edmond non è tanto una narrazione quanto un'opera saggistica: Mamet non vuole raccontare un Edmond qualsiasi, vuole usarlo come icona. È una bidimensionalità necessaria, come necessaria è, a questo punto, la struttura a spirale dell'intero film. Attraverso di essa, Mamet lascia da parte la costruzione tradizionale della suspence - al quinto minuto di film e al terzo incontro-scontro lo spettatore immagina perfettamente che cosa accadrà nelle scene successive - per concentrarsi da una parte sulla tensione interna delle scene (spesso quasi intollerabili), dall'altra sull'approfondimento insistito della psiche del suo furibondo protagonista: un'impostazione saggistica, appunto, verticale, legata alla focalizzazione e all'approfondimento di un singolo elemento piuttosto che all'accostamento orizzontale di più temi. La struttura a iterazione iperbolica di Edmond è fortemente assolutizzante, perché il gioco al rialzo, proprio come una spirale, tende all'infinito, all'astrazione (al contrario di una tradizionale struttura in tre atti, legata alla contestualizzazione ma anche alla contingenza). E, soprattutto, una volta innescato il meccanismo discendente, è necessario che la discesa agli inferi continui fino alla fine: la storia di Edmond è ineluttabile, obbligata.
Contrariamente al racconto cinematografico tradizionale, dove lo sviluppo appartiene all'area della possibilità, in Edmond appartiene al campo del compimento: non c'è sorpresa né suspence, ma soltanto realizzazione di eventi già presentiti all'inizio. Mamet racconta senza lasciare vie d'uscita, crea un personaggio la cui caparbia determinazione al male è già dalla prima scena destinata all'annichilimento assoluto, al caos, all'entropia. È per questo motivo strutturale, più che per la sgradevolezza della messinscena, che l'universo di Edmond è così malsano: perché in esso il male è la regola. Ancora di più, il male, nel film di Mamet e Gordon, è ovvio. L'analisi dell'abisso che si nasconde sotto alla superficie del vivere civile è un altro tema ormai sviscerato. Molti sono i film che hanno raccontato questo esplodere del caos al di sotto delle sovrastrutture sociali, da Un giorno di ordinaria follia a Un tranquillo weekend di paura (intitolato in originale Deliverance, liberazione, con ben altre risonanze rispetto al titolo italiano), eppure in Edmond qualcosa disturba ancora. Edmond è un uomo che cade dentro di sé consapevolmente o addirittura volontariamente: è un individuo che scopre a proprie spese la sua natura, accettando di pagarne le conseguenze di fronte alla società. Il suo degradarsi è più radicale di quelli messi in scena finora perchè appare prima di tutto un degradarsi programmato, che viene poi portato alle estreme conseguenze nel modo meno banale. Edmond si perde e compie la sua autodistruzione secondo schemi narrativi già utilizzati dal cinema precedente per due terzi del film: eppure, nell'ultima mezz'ora la sua disgregazione diventa assoluta, in quanto accetta di farsi passiva. In cella, arrestato per i suoi assurdi gesti di violenza, il processo di annichilimento passa dalle mani di Edmond a quelli della società, ma il protagonista accetta supinamente questo fatto, il suo atteggiamento non cambia, accetta l'umiliazione con una sorta di orgoglio caparbio e senza che la sua rabbia venga meno. Il suo tendere al nulla, la sua volontà distruttiva, si applica anche a se stesso, nei modi dell'umiliazione e nella disgregazione. Edmond non è solo un personaggio che decide di perdersi, affondando dentro di sé, è un personaggio che accetta una perdizione così totale da presumere perfino il suo annullamento passivo. L'Edmond dell'ultima scena, abbracciato al compagno di colore, è la celebrazione della propria alienazione, dell'essersi eliminati. L'odio di Edmond verso se stesso e gli altri non è venuto meno, ha solo trovato un modo più profondo e devastante per esprimersi.
Non si tratta esclusivamente di animo umano: in Edmond, anche la società e il mondo esterno sono disastrosi, dominati da frammentazione e solitudine. È un universo disperato, sgangherato, privo di qualsiasi forma di socializzazione, condannato ad un individualismo feroce: omofobia e razzismo - onnipresenti - sono solo i più espliciti fra i segni che decretano l'impossibilità della civiltà. Fra l'altro, Edmond è uno fra i pochi film a cercare di rinnovare, con successo, il frusto tema dell'incomunicabilità (di nuovo un cliché rinnovato). E lo fa proprio con l'utilizzo di schemi iterativi fissi nel raccontare gli incontri del protagonista: avvicinamento, punto di contatto, chiusura, rabbia, violenza. La rabbia di Edmond, il suo odio, è pretestuoso e immotivato, è inutile, e per questo è assoluto. C'è del tragico in questa ripetitività, perchè non c'è nell'universo di Edmond la possibilità di comunicare, ogni sforzo sembra essere vano, in una geografia urbana che non fa che sottolineare la frammentazione. Tutto il film è costruito con una dinamica di spazi antirealistica, in una città, Los Angeles, che appare soltanto come uno sterminato e slegato susseguirsi di piccoli ambienti pieni di disperati. Questa tendenza all'astrazione (stilistica oltre che contenutistica) porta ad un nuovo innalzamento del tema delle riflessioni: l'odio individuo/società, individuo/individuo e individuo/se stesso diventano il simbolo non tanto di una civiltà malata e bisognosa di cure, quanto proprio del Male. Edmond non è un film politico, non analizza l'America molto più di quanto non analizzi una qualsiasi forma di società occidentale: il suo punto di vista è più propriamente etico e l'attenzione è concentrata sulla pulsione alla negatività, e della nostra ambigua e morbosa affinità con esso. Insieme col Male, Mamet e Gordon si portano dietro anche due temi strettamente legati: la colpa e il destino. Temi che si amplificano partendo da una situazione in cui ogni tentazione ultraterrena e provvidenziale è spazzata via. Edmond stesso, in galera, impreca a lungo contro l'idea stessa di Provvidenza (se Dio è caritatevole, afferma il protagonista, perchè non mi tira fuori di qui? Parodia grottesca del Si deum est unde malum? agostiniano): Dio è forza positiva e antientropica, in un mondo chiaramente dominato dal caos e dalla disgregazione la sua presenza è inaccettabile. Quindi, dovendo spiegare la presenza del Male in assenza di giustificazioni ultraterrene, è necessario indagare sulla sua origine. Occorre stabilire in primo luogo se esso è connaturato a noi, e quindi tragicamente necessario, oppure se è una scelta che il libero arbitrio del singolo permette di fare o non fare. Il protagonista non risponde a questo interrogativo: chiedendosi il perchè di ciò che gli accade, addossa ingenuamente al destino le colpe di un escalation di odio che invece appare allo spettatore più come un compimento, una realizzazione della sua volontà, che non una condanna.
Edmond ha scelto il Male assoluto (che comprende l'accettazione del Male su di sé), ha scelto di perdersi. Nell'iterazione ossessiva dei suoi gesti, c'è la caparbietà di chi non vuole fermarsi, non vuole salvarsi. Siamo nel territorio di uno dei grandi film "filosofici" degli ultimi decenni, The Addiction di Abel Ferrara: la perdizione, lungi dall'essere fato, è una forma di costruzione di sé in negativo. Noi siamo i garanti del nostro tendere al male o al bene (la tragedia sta nel fatto che naturalmente tendiamo verso il male, sembra dire Mamet), e a conti fatti è naturale che il film di Gordon prenda le mosse da una situazione di liberazione, da una presa di coscienza e da una volontà di superamento: il perdersi è una forma di autodefinizione. Edmond osa una strada che non era mai stata presa così esplicitamente, affermandosi - con violenza, arroganza, ma anche grande lucidità - come un orgoglioso bildungsroman del cuore selvaggio degli esseri umani.