L’insospettabile realismo di Dogville
di Enrico Maria Artale
Dogville è un film nato e
pensato per far discutere, nel bene e nel male. Ma qualunque
tipo di discussione intorno a questo film, le cui particolarità
sono evidenti, dovrebbe essere preceduta da una domanda fondamentale:
l'espediente formale in questione è giustificato, anche
parzialmente, da una necessità espressiva, magari legata
alla trama stessa? O si tratta di un artificio gratuito, originale
forse, ma sostanzialmente immotivato, destinato ad attirare
l'attenzione piuttosto che a fornire un senso all'intera pellicola?
In un film come Dogville, costruito proprio su un espediente
formale, questa domanda deve essere posta. Perché Lars
von Trier ha girato il film come lo ha girato, riducendo il
profilmico ad alcuni oggetti, alcune scritte e uno sfondo nero,
"simulando" tutto il resto? Rispondere a questa domanda
non serve soltanto per trarre un giudizio complessivo, ma permette
anche di comprendere alcuni aspetti fondamentali dell'opera
del discusso regista danese. L'espediente formale su cui Dogville
si fonda non è affatto ingiustificato. Questo non vuol
dire necessariamente che Lars von Trier non abbia considerato
la fecondità commerciale della sua idea. I due aspetti
non si escludono a vicenda. La scelta del regista è giustificata
dalla natura analitica dell'opera, su cui è possibile
discutere partendo proprio da quel decisivo venir meno del profilmico.
Dogville, la vera e unica protagonista
del film, è un cittadina ipoteticamente "normale".
Come tutte le cittadine "normali", essa si fonda su
un sistema complesso, uno spazio concettuale che può
essere analizzato produttivamente da diversi studiosi: storici,
sociologi, geografi, psicologi, antropologi. Utilizzando strumenti
eterogenei, le diverse competenze arriveranno tutte a restituirci
delle importanti informazioni che concernono la cittadina nella
sua natura di comunità, mostrandoci analiticamente il
complesso meccanismo di relazioni sociali su cui si fonda anche
un piccolo paese come Dogville. L'intenzione di questo film
sembra essere analoga. Tuttavia, portare esplicitamente questo
bagaglio concettuale all'interno dell'opera sarebbe stato difficile,
e forse improduttivo. Così von Trier cerca di rendere
visibile questo sistema di relazioni, facendo astrazione di
tutti quegli elementi che, pur contribuendo al costituirsi delle
relazioni stesse, non vi appartengono essenzialmente. Restano
dunque le persone, i luoghi - intesi non come luoghi reali,
ma come porzioni di spazio posizionate secondo un piano unitario
-, e quei pochi oggetti transitivi per la relazione interpersonale,
come le mele, le statuine, le catene, i bicchieri. Tutto ciò
aumenta l'effetto di irrealtà, ma anche il potere osservativo
della m.d.p.: se, dopo i primi minuti di sorpresa, il secondo
incremento è più significativo del primo, l'espediente
formale funziona. Tuttavia, il regista, con grande intelligenza,
sceglie di non seguire meticolosamente questa regola, eliminando
anche alcuni elementi su cui si fondano quelle relazioni che
lui stesso si è posto l'obiettivo di indagare, e ponendole
così in evidenza. Per von Trier queste relazioni si fondano
costitutivamente sull'ipocrisia e sulla connivenza: l'eliminazione
delle mura restituisce appieno questa prospettiva. Le mura delle
case sono, ovviamente, degli elementi determinanti nel costituirsi
dei rapporti sociali: individualizzano lo spazio, lo privatizzano
precludendone la visione e la conoscenza; le mura creano una
sorta di protezione, permettono di difendersi, ma anche di compiere
gesti che la comunità non approverebbe perché
sottoposti a tabù, considerati sconvenienti o magari
pericolosi. In questo senso sono una fonte di libertà,
e quindi anche una fonte di ambiguità. Ma spesso questa
libertà è più ristretta di quanto non sembri.
Nelle nostre metropoli il potenziale invasivo della comunità
è altissimo. Sappiamo quale grado di controllo è
possibile esercitare attraverso il computer, il telefono, la
televisione, in quegli ambienti dove le persone credono di non
essere osservate, o ascoltate. Ma anche in piccolo paese come
Dogville, così come lo ha concepito Lars von Trier, queste
barriere in muratura possono rivelarsi fittizie: le piccole
comunità hanno occhi ovunque, e lo spazio privato spesso
è assolutamente inesistente. Esse condividono più
essenzialmente un unico spazio comune, così come i personaggi
condividono Dogville. Queste mura invisibili, quindi, non solo
ci permettono di "vedere" la simultaneità dei
movimenti degli abitanti di Dogville, mettendone in luce le
relazioni intersoggettive, ma gettano una luce sinistra su tali
relazioni, attraverso il paradosso. L'esempio più evidente
è rappresentato dalla prima scena di stupro: dietro i
corpi agitati di Grace e di Chuck, lo spettatore vede gli altri
personaggi continuare le proprie faccende, ignari di ciò
che accade, "come se niente fosse". Ecco, in questo
"come se niente fosse" sta gran parte della genialità
di un film come Dogville. In una normale messa in scena,
il regista danese sarebbe stato costretto a utilizzare un normale
montaggio in parallelo, alternando la scena dello stupro con
quelle ambientate all'esterno della casa, creando una sorta
di contrasto emotivo; ma così facendo avrebbe dovuto
unire in sede di montaggio elementi di per sé distinti:
avrebbe girato la scena interna in un determinato giorno, la
strada il giorno dopo, e la casa adiacente, magari, tre mesi
dopo. Invece, grazie a quel decisivo venir meno del profilmico,
Von Trier rispetta coerentemente sia l'unità di luogo
che l'unità di tempo: egli mostra realmente la contemporaneità
delle azioni, ne evidenzia il rapporto reale, e in questo modo
coglie la mostruosità e la paradossalità della
situazione. I suoi attori devono agire realmente "come
se niente fosse", mentre accanto a loro sta realmente
avvenendo uno stupro.
A questo punto si potrebbe pensare: la scena in questione ci
mostra come in una città di persone perbene, che svolgono
regolarmente il proprio lavoro, possano trovare posto situazioni
orribili, da tutti ignorate, nascoste dalle mura delle abitazioni.
Ma non è così: sappiamo che Dogville non corrisponde
a questa descrizione, e forse neanche la realtà vi corrisponde.
Il contesto di integrità morale e di positività
sarà presto smentito dal film, e dunque la stessa scena
si arricchisce implicitamente di significati ben più
inquietanti. Sono veramente ignari i personaggi di Dogville?
Sappiamo che in una piccola comunità di questo tipo,
in cui tutti si conoscono molto bene, e da molto tempo, non
esiste un vero e proprio spazio privato. Sappiamo anche che
in tali comunità ciascun individuo assume un ruolo, un
atteggiamento formale, anche se tutti conoscono la sua realtà
più intima, che spesso ha poco a che vedere con il ruolo
assunto. È lecito ipotizzare che una completa ignoranza,
in un paesino come Dogville, non sia possibile: ed ecco emergere
l'ipocrisia. Gli abitanti della cittadina, sostanzialmente,
fanno finta di non vedere. Conoscono la natura abietta e cruda
dei loro compaesani, ma recitano un ruolo che prevede
un'armonia illusoria, fittizia, fondata su una tacita connivenza.
In questo senso Dogville è un film straordinariamente
realistico: esso ci mostra l'assoluta realtà di questo
meccanismo sociale, soltanto attraverso l'astrazione scenografica,
evidentemente irrealistica. Il film mette in scena la quotidiana
recita degli abitanti di Dogville, mostrandone con evidenza
innegabile il suo carattere di recita: gli attori non devono
interpretare la parte di chi fa finta di non vedere, come sarebbero
stati costretti a fare se Dogville fosse stato girato
in modo tradizionale; gli attori devono realmente fingere
di non vedere qualcosa che è realmente a portata dei
loro occhi, grazie alla trasparenza delle pareti. Le inquadrature
del film parlano chiaro: mentre Grace viene violentata, sullo
sfondo distinguiamo nettamente gli altri personaggi, che potrebbero
benissimo osservare ciò che sta accadendo nella stanza,
ma guardano da un'altra parte. Il meccanismo che avviene sul
set di Dogville, nel suo costituirsi come finzione cinematografica,
corrisponde realisticamente ad una finzione possibile, e anche
molto probabile, in un paesino come Dogville; nel contempo,
lo stesso meccanismo ci mostra l'assoluta realtà di un'ipocrisia
deliberatamente cieca, con un rigore testimoniale quasi documentario.
Tutto ciò che nel film è finzione - la recitazione,
le mura -, è finzione anche nella realtà; tutto
ciò che nel film è realtà, come le relazioni
interpersonali, è reale anche al di fuori del film. In
questo senso Dogville appartiene ad un realismo superiore,
che integra in sé una riflessione consapevole tra la
realtà e la finzione artistica, e, affrancandosi da uno
statuto meramente rappresentativo, può pirandellianamente
affermare: "Ma quale finzione? Questa è realtà."
Le novità formali che caratterizzano
il film di Lars von Trier potrebbero dunque trovare una loro
giustificazione nel suo aspirare ad un crudo realismo. Tale
aspirazione aumenterebbe considerevolmente il potere critico
dell'opera nei confronti della società americana, funzione
che, d'altronde, rientrava già nelle intenzioni iniziali
del regista (1). Tuttavia, dal finale del film, sembrerebbe
emergere una visione della violenza e della giustizia difficilmente
conciliabile con una critica al sistema americano, almeno finchè
si continuerà a voler recepire questo finale come una
conclusiva pars costruens. Cosa che, a dir la verità,
non permette di sottolineare quanto Dogville abbia invece
il merito di mettere in mostra alcuni meccanismi fondamentali
dell'agire umano. Secondo René Girard, autore di uno
dei testi fondamentali del pensiero antropologico (2), la cultura
occidentale misconosce radicalmente alcuni meccanismi che, originari
delle società primitive, permangono in forma dissimulata
anche al giorno d'oggi, svolgendo un ruolo determinante nelle
nostre "società civilizzate". Si tratta di
un legame profondo che unisce in modo inestricabile il sacrificio,
la vendetta, la giustizia, e la violenza in generale: è
quindi evidente che l'accostamento di queste considerazioni
illuminanti ad un film come Dogville può rivelarsi
quantomeno interessante. Ovviamente, ci troviamo in un territorio
interpretativo che non pretende di rintracciare le proprie origini
nelle intenzioni del regista: sarebbe anzi impossibile che questo
avvenisse, se consideriamo Lars von Trier come un'esponente
della cultura occidentale, e dunque sostanzialmente immerso
nell'inconsapevole misconoscimento.
Ad essere in questione, dunque, è
il finale del film: nella cittadina di Dogville, chiamato dagli
abitanti del paese, arriva il padre di Grace, potente boss della
malavita. L'uomo ha un lungo colloquio con la figlia, anche
troppo filosofico per poter essere verosimile: al termine di
questo colloquio, il boss fa eseguire ai suoi uomini l'ordine
impartitole dalla figlia. È un massacro. Le auto dei
mafiosi si allontanano portando con sé Grace, e Dogville
resta desolata; solo il cane è stato risparmiato. Il
film spiega chiaramente questo finale, che ai nostri occhi sembra
pienamente giustificato: l'etica di Grace, improntata sulla
sopportazione, sul perdono, sulla considerazione di tutte le
attenuanti e le circostanze che possono spiegare le ragioni
del male, ha mostrato il suo "vero" volto. Il padre
le fa notare che, assumendo tale posizione, Grace si colloca
colpevolmente al di sopra della comunità, su un piano
intellettuale e morale che, elevandola, la isola al tempo stesso:
questo atteggiamento si rivela sterile e profondamente diseducativo.
Infatti, per il padre di Grace, la pena sembra essere non un
dovere, ma un diritto del colpevole, qualcosa che gli appartiene,
in quanto costituisce la sua possibilità di redenzione.
Questa idea della pena, che sembra piena di reminescenze hegeliane,
non coincide quindi con la condotta di Grace, che ha sempre
perdonato il male che le è stato inflitto. In questo,
Grace sembrerebbe seguire il messaggio scandaloso del Cristo,
per cui il perdono è un atteggiamento infinito, che passa
attraverso la sofferenza personale, il riconoscimento e l'accettazione
della debolezza altrui. Per contrasto, il padre incarnerebbe
invece un'idea della giustizia severa, duramente punitiva, quasi
biblica. In questo modo ci muoviamo, anche sensatamente, in
un orizzonte che mantiene ancora attiva la distinzione tra bene
e male, in un orizzonte morale. Girard ci insegna che se vogliamo
andare al fondo della questione, questa distinzione deve essere
abbandonata. E al fondo della questione domina la violenza,
pulsione fondamentale dell'essere umano, che chiede costantemente
di essere tenuta sotto controllo. Girard sostiene che una delle
caratteristiche peculiari della violenza è la sua ferocia:
questo determina la sostituibilità della vittima,
ossia la possibilità, propria della violenza, di scaricarsi
su un soggetto diverso da quello che aveva destato l'impulso,
nel caso in cui quest'ultimo non fosse raggiungibile. In questo
meccanismo sostitutivo si inserisce a pieno titolo il rito sacrificale.
La vittima di tale rito sostituisce il colpevole: spesso si
tratta di animali al posto di uomini, e la tradizione mitica,
sia greca che ebraica, è piena di esempi significativi.
Ma, talvolta, la sostituzione avviene tra esseri umani: nelle
già civili polis greche è nota la figura
del pharmakos, il capro espiatorio, un uomo che era bersaglio
di tutte le violenze, compreso l'omicidio. Ai nostri occhi può
sembrare assurdo e superstizioso, ma la sostituibilità
della vittima, come ci spiega Girard, ha le sue buone ragioni.
Caratteristica fondamentale della vittima
sacrificabile è la sua non vendicabilità. Le società
primitive vivono infatti nel pericolo di un'imminente escalation
della violenza attraverso la vendetta, pericolo che riguarda
la stessa esistenza della piccola comunità. Dogville
potrebbe essere considerata, senza grosse difficoltà,
una piccola comunità primitiva. Anche se, ipoteticamente,
ci troviamo negli anni Trenta, nella cittadina non si può,
infatti, avvertire la presenza dello Stato: manca assolutamente
un potere centrale, e soprattutto un'autorità giudiziaria,
che certo non può essere rappresentata dall'assemblea
di paese. In tale comunità Grace rappresenta il pharmakos,
il capro espiatorio, il soggetto sul quale è possibile
riversare gli istinti violenti: essa è isolata, forestiera,
schiava, prigioniera, tutte caratteristiche che appartenevano
al pharmakos greco, un individuo che, pur condividendo
lo spazio della comunità, non era integrato in essa.
Ma soprattutto Grace non ha congiunti (nessuno sa che è
la figlia di un boss) e quindi queste violenze non possono essere
vendicate. Naturalmente la violenza si associa facilmente alla
sessualità: entrambe sono accomunate dalla possibilità
della sostituzione, come confermano le parole che Lisa rivolge
a Grace, ringraziandola per aver attirato su di sé il
desiderio sessuale degli uomini. Lungo il corso del film il
ruolo sacrificale di Grace si delinea sempre di più,
un ruolo che, condotto alle estreme conseguenze, l'avrebbe necessariamente
portata alla morte. Ma questo non accade: gli abitanti di Dogville,
convinti di poter delegare la responsabilità della
fine di Grace, chiamano il boss. In questo momento nessuno ne
conosce l'identità, e questi sembra piuttosto rappresentare
un potere, un'autorità superiore, giudiziaria ed esecutiva
al tempo stesso. Non sanno che è il padre di Grace, un
congiunto strettissimo quindi, colui che non a caso le permetterà
di vendicarsi. Nelle società primitive, e tale si è
rivelata Dogville, per evitare l'escalation della violenza
dovuta alla concatenazione delle vendette veniva ucciso un elemento
innocente. Come acutamente sottolinea Girard, non è che
i primitivi non fossero abbastanza intelligenti da distinguere
innocenza e colpevolezza: è che sacrificando un innocente,
uomo, o talvolta animale, sviavano la violenza vendicatrice,
ingannandone per così dire il meccanismo. Ed è
proprio questo il tipo di giustizia che il padre di Grace propone:
uccidere il cane, appenderlo ad un muro. Il sacrificio di un
animale, l'essere più innocente di tutta Dogville. Ma
Grace rifiuta: il suo desiderio di vendetta non sarebbe pienamente
appagato. Il meccanismo sostitutivo e sacrificale, di cui lei
stessa era stata vittima, entra in crisi. Non la soddisfa perché
Grace non è affatto una donna primitiva: la sua vendetta
avrà una forma più razionale e moderna. Girard
è molto chiaro su questo punto: al sacrificio, che nascondeva
agli uomini la forza della vendetta, subentra lo Stato, l'autorità
giudiziaria, la cui perfezione è decisamente superiore.
Sia il sacrificio che lo Stato cercano di realizzare vendette
che non saranno a loro volta vendicate, frenando l'escalation.
Ma "nel primo caso, se non viene vendicata, è perché
la vittima non è quella buona; nel secondo caso è
proprio sulla vittima buona che s'abbatte la violenza, ma lo
fa con una forza e un'autorità talmente massicce che
non è possibile risposta di sorta" (3). Il film
mostra mirabilmente questo passaggio, antropologicamente e storicamente
decisivo, dalla forma del sacrificio alla forma dello Stato,
evidenziandone il legame profondo, quel comune intento di dominare
la violenza esercitandola secondo un determinato criterio.
Grace non uccide in prima persona (fatta eccezione di Tom),
ma delega responsabilmente l'esecuzione della pena ad un potere
la cui forza è incontrovertibile.
Se questo fosse il messaggio finale del
film, come potrebbe facilmente sembrare, sarebbe alquanto discutibile,
e ben poco critico nei confronti del sistema americano. Infatti,
Grace sostiene di voler compiere il massacro per il bene dell'umanità
stessa, spazzando via coloro il cui comportamento non è
stato "abbastanza buono". Ma se è vero quel
che ha scritto Renè Girard, sotto le ingannevoli disquisizioni
morali di Grace e di suo padre si nasconde la realtà
di qualcosa che da sempre domina le profondità dell'animo
umano: la violenza. Una violenza che, nel suo costituirsi come
istinto vendicativo, Girard definisce violenza essenziale, principio
ispiratore del sacrificio (di Grace), ma anche della pena statale
(l'esecuzione sommaria del finale). Una violenza dunque, che
come dice Umberto Curi si fa morfogenetica, creatrice
di forme, di funzioni, di ordine, e al tempo stesso portatrice
di distruzione, di crisi, secondo una costitutiva ambiguità
che il filosofo giustamente ritrova anche in un film come Gangs
of New York (4). Certo è difficile capire quanto
il regista danese fosse pienamente consapevole di questo aspetto,
e quanto non sia stato invece "ingannato" dalla sua
stessa storia, fermandosi a considerazioni di tipo etico, senza
comprendere il meccanismo fondativo dell'intero processo. Ma,
se anche così fosse, egli sarebbe comunque giustificato,
poiché la violenza si nasconde sempre, sfugge alla comprensione,
e, come dimostra Grace, domina l'uomo con tanta più sicurezza,
quanto più l'uomo è convinto di poterla dominare.
Questo perché, come dice Girard, e come mostra Dogville:
"Non si può fare a meno della violenza per porre
fine alla violenza. Ma è appunto per questo che la violenza
è interminabile" (5).
Note:
(1) Alcune scelte di sceneggiatura sembrano diminuire notevolmente
tale istanza critica, trascinando il film in una dimensione
fortemente simbolica; forzature della trama che esorbitano da
un'orizzonte di critica realistica. La lunga sezione in cui
Grace è legata, con il particolare della gogna, e l'universalizzazione
dello stupro, sembra smascherare la cittadinanza nord-europea
del regista: una situazione estrema che è facile rintracciare
nella tradizione letteraria europea, e soprattutto nordica,
di fine Ottocento. D'altra parte i film di Lars von Trier hanno
la tendenza a focalizzarsi su un personaggio profondamente benevolo,
ma anche isolato, per poi precipitarlo nella più crudele
serie di eventi sconcertanti, fino a farne una vittima assoluta,
sfruttata e maltrattata oltre ogni usuale convenzione drammaturgica.
Questa dinamica, evidente anche in Dancer in the Dark,
"costa" al regista una certa quantità di realismo,
che se nel film con Bjork era accettabile sulla base della componente
immaginifica che pervade tutto il film, in Dogville costituisce
una perdita significativa.
(2) Cfr. R. Girard, La Violenza e il Sacro, Adelphi,
Milano 1980.
(3) Cfr. R. Girard, La Violenza e il Sacro, Adelphi,
Milano 1980.
(4) Cfr. U. Curi, Un filosofo al cinema, Bompiani, Milano
2006. Oltre al film di Scorsese, Curi rintraccia questo aspetto
anche in Mistyc River, Elephant e Collateral.
(5) Cfr. R. Girard, La Violenza e il Sacro, Adelphi,
Milano 1980.
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