I sognatori e la realtà. Le reazioni a The dreamers di Bernardo Bertolucci
di Antonio La Torre
Nel 1976 Musatti rilevava il verificarsi di una situazione alquanto strana nei giudizi a Novecento: "Mentre i critici professionisti, anche se con qualche riserva, enunciano giudizi complessivamente positivi, la nostra intellighenzia critica l'opera in modo pesante". Qui siamo di fronte a condanne pronunciate, come diceva il Santo Uffizio, in odium auctoris. "Il film è una puzzonata, e io non ho neppur bisogno di vederlo tutto per giudicarlo". "Bertolucci non ha mai fatto film belli, e quindi neppure questo poteva valere qualche cosa". E, incuriosito da tanto livore, si interrogava sul movente, avanzando l'ipotesi che si trattasse "della stessa storia narrata. Una storia recente, che ognuno vorrebbe raccontata a modo proprio. E che raccontata invece da un altro, e diversamente, viene sentita come usurpazione di qualche cosa che ci appartiene".
Trent'anni dopo l'attacco si rinnova. Dall'uscita di The dreamers, infatti, non è stato affatto difficile imbattersi nei commenti al film da parte di spettatori inferociti. Tuttavia, quello che colpisce non è tanto il giudizio unanimemente negativo, quanto, ancora, l'astio che accompagna il giudizio. Un astio apertamente esibito, intimamente rancoroso. E, nuovamente, l'invettiva sembra non derivare da un puritanesimo mal sopito che il film, per la grossa parte che il sesso riveste, per di più di tipo incestuoso, perverso, con componenti voyeuristiche e latentemente omosessuali (che i rapporti sessuali con più di due persone coinvolte mettono in atto), finisce per risvegliare, e a cui dà modo di esprimersi. Ma è ancora una volta l'ambientazione della storia ad accendere le reazioni. Perché nel film la contestazione giovanile fa solo da sfondo. O meglio, a fare da sfondo è quella parte della contestazione che si faceva (si poteva fare) appunto in piazza, in quanto in quel periodo, ci rassicura Bertolucci, anche la scoperta-riappropriazione della sessualità era un atto rivoluzionario: "l'eros era uno dei modi per raccogliere, scoprire, scatenare lo spirito della contestazione: l'eros era rivoluzionario". E il nodo tematico sul quale il film si snoda è, appunto, questa scoperta della sessualità da parte dei tre giovani protagonisti. Scoperta che è parte del processo di conoscenza reciproca, nel quale la smodata passione per il cinema e le discussioni politiche costituiscono le altre componenti necessarie. E proprio il fatto che le rivendicazioni politiche non siano in primo piano, fa sentire questi spettatori come defraudati di un ricordo. La contestazione studentesca, quella fatta di slogan e pugni chiusi, entra realmente nel film solo nel finale. Ed è proprio il finale, nelle reazioni raccolte, a costituire uno dei principali capi d'accusa, in quanto letto come uno svilimento della lotta: le immagini che si sono attese per l'intero film suonano come un'eccessiva, inaccettabile, semplificazione di un periodo denso di significati e di risvolti anche contraddittori. Finale che, detto per inciso, sembra invece non porsi l'obiettivo primario di riassumere le lotte politiche del '68, ma, piuttosto di indicare le differenti scelte che Theo e Matthew compiono quando scendono in piazza, quando la realtà li risveglia dalla loro continua messa in scena della vita, e li obbliga ad uscire dal chiuso del loro menage a trois.
Bertolucci ha dichiarato che l'accusa di nostalgia politica e di scorretta esegesi di quel periodo storico che gli vengono rivolte dagli ex sessantottini sono dovute al fatto che chi ha vissuto quegli avvenimenti non vuole ricordare. "Rifiutano la nostalgia perché considerano il '68 un terribile fallimento". L'ipotesi di Musatti, quindi, ci offre ancora una volta, tre decenni dopo, la soluzione dell'enigma. Ma oggi, al risentimento di chi ha vissuto il periodo storico che il film rievoca, si aggiunge quello della generazione successiva, o per lo meno di una parte di questa generazione. Nel caso di queste reazioni non pare, a prima vista, applicabile la spiegazione fornitaci da Musatti. Ma è, appunto, una non coincidenza soltanto apparente. I ragazzi più indignati dal film sono quelli che, affetti da una "nostalgia da mancato '68", consciamente o inconsciamente, apertamente o tra le righe, dimostrano di rimpiangere di non aver potuto, per motivi anagrafici, prendere parte a quell'esperienza. La loro reazione combacia con l'usurpazione di cui parla Musatti, e che sappiamo serpeggiare in chi quell'esperienza sente, giustificatamente, come propria. La generazione dei figli (genetici o ideali) dei sessantottini reagisce al film come ci saremmo aspettati, alla luce della constatazione di Musatti, che avrebbero reagito soltanto i padri, quelli che erano in quelle università e in quelle piazze. Una reazione ugualmente offesa, di chi si sente preso in giro con promesse non mantenute. Ma se anche Bertolucci non avesse ragione, se nelle conquiste del '68 l'erotismo avesse avuto solo una parte marginale, se nel suo ricordo si fosse amplificato il ruolo che la sessualità ricoprì, se avessero ragione i sessantottini e la loro progenie, non sembra proprio essere questo un motivo sufficiente per attaccare il film. In questo caso The dreamers ci mostrerebbe la contestazione giovanile attraverso una forma sineddotica: la scoperta della sessualità come emblema dell'intero movimento, tenuto fuori campo per quasi tutto il film. Un particolare per il generale, una parte per il tutto. Caratteristica, questa, che aggiungerebbe complessità all'opera e non potrebbe far altro che accrescerne il valore.
Certo, le reazioni raccolte, per la casualità delle registrazioni dei pareri, non hanno valore di sondaggio, ma l'uniformità dei giudizi e il precedente annotato da Musatti lasciano supporre che non si tratti di semplice coincidenza, e che queste testimonianze possano quindi avere un valore esemplificativo di un particolare atteggiamento critico dello spettatore. Tali specifiche reazioni, infatti, mettono in luce due caratteristiche della ricezione del film in genere. In primo luogo, come sempre, le critiche riguardano il contenuto del film, e non la forma attraverso la quale questo contenuto si è transmutato in cinema, segno che la visione è spesso realmente visione solo in parte. Il film, a proiezione terminata, nella mente e nelle parole degli spettatori, torna ad essere soggetto, paginetta che riassume il concetto, l'argomento sul quale il film prende corpo, ciò di cui il film "parla". Le scelte registiche di messa in scena, messa in inquadratura e montaggio risultano ignorate, perché subito dimenticate da un pubblico disabituato a leggere il film come prodotto del mezzo cinema. Disabituato da un cinema poco cosciente dei suoi stessi mezzi specifici, delle sue potenzialità espressive, da film che a volte paiono negare il loro essere opere cinematografiche, senza la coscienza dell'atto del negare, che renderebbe la negazione stessa un gesto che sottintende una profonda consapevolezza. E quando il soggetto del film, il riassunto che ne traiamo, non coincide con la nostra opinione reagiamo come offesi. Ed eccoci giunti al nodo del problema. Lo spettatore ha sempre delle aspettative rispetto al film, che verranno inevitabilmente soddisfatte o deluse. Ma il soddisfacimento di queste aspettative diventa troppo spesso per lo spettatore il metro attraverso il quale giudicare l'opera. Il giudizio sottomesso alla tirannia del contenuto che mette a tacere il giudizio estetico. E il giudizio non può derivare da una più o meno esatta coincidenza con la nostra visione o ricordo dell'avvenimento evocato dal film, o con una corretta lettura del fatto. Il ruolo dello spettatore (che liberamente sceglie di andare a vedere quel film) dovrebbe essere quello di porsi in ascolto dell'autore, che, idealmente, ha per lui immaginato l'opera, e non cercare nella visione ciò che già sa, perchè ha già visto, realmente o immaginativamente. Un atteggiamento che preclude il godimento di molti film per una semplice divergenza di opinioni con l'autore. Senza l'iniziale disposizione ad accogliere il mondo evocato dall'autore - disposizione limitata dalla delusione dell'aspettativa che blocca la ricettività - non può venire formulato un giudizio significativo sul film, che non sia influenzato da un distacco che ne ha minato la ricezione. Come se la conoscenza della diversità non costituisse un arricchimento. A meno che, certo, il film non abbia un intento dichiaratamente e strettamente documentario. In questo caso il confronto tra la rappresentazione cinematografica e la (più o meno) supposta realtà dei fatti è un criterio chiamato in causa dal film (dal regista) stesso. Caso nel quale non si può certo far rientrare non solo The dreamers, ma l'intera opera di Bertolucci, nella quale la realtà storica è sempre filtrata attraverso la fantasia, con momenti dichiaratamente simbolici.

È una richiesta, questa dello spettatore dell'appagamento delle sue aspettative, che mette in moto un ciclo, che si rinnova ad ogni film, fatto di attese e di delusioni di quelle attese - che lo porta a rifiutare il film -, o, al contrario, di appagamento di questa domanda, che non produce altro se non opere che sanno tanto di dejà vu. Un ciclo che se può avere una sua ragion d'essere per il cinema di largo consumo - per sua stessa costituzione "imprenditoriale", sempre attento a indovinare le aspettative del pubblico - non può certamente trovare posto nel cinema d'autore, che dell'originalità contenutistica e formale fa un suo fine e vanto.
Bibliografia:
Cesare L. Musatti, Il quarto stato nel Novecento di Bertolucci, Cinema Nuovo n. 243, settembre-ottobre 1976.
Barbara Corsi, La rivoluzione in camera da letto, Vivilcinema n. 5, settembre-ottobre 2003.