La vendetta al cinema. Sulla trilogia di Park Chan-wook
di Amon Rapp
Cos'è la vendetta? Non è certo facile rispondere ad una simile domanda. Le soluzioni che è possibile dare ad un tale interrogativo possono essere molte e provenirci da numerose vie: dai dizionari, dai manuali di psicologia, dai trattati di filosofia morale. Nessuno di questi strumenti sembra però capace di farci comprendere ad un tempo le caratteristiche essenziali della vendetta, la sua composizione "chimica", e il vissuto concreto in cui questa passione irrompe, modificando l'agire, il pensare e il sentire dell'uomo. La visione della trilogia di Park Chan-wook, dedicata a questa pulsione primordiale, sembra però fornirci un quadro chiaro, completo e molteplice di questo sentimento. I tre film, infatti, mostrano con una potenza straordinaria l'essenza stessa della vendetta, declinata nei suoi svariati modi di attuazione.
Da subito l'elemento che con più evidenza si presenta sotto ai nostri occhi è che la vendetta non è un atto volontario, frutto di una scelta individuale e ben ponderata, ma una vera e propria passione che non si limita a permeare il soggetto, ma lo spinge ad agire, o meglio, lo obbliga ad agire. La parabola di Park Dong-jin, il protagonista di Sympathy for Mr. Vengeance, simboleggia pienamente l'obbligo morale che schiaccia colui che si ritrova nelle mani delle furie vendicative, obbligo che non lascia alcuno scampo e che non può che condurre l'uomo verso un'inevitabile (auto)distruzione. Dong-jin, difatti, non ha in alcun modo la facoltà di scegliere se attuare o meno la propria vendetta: essa è una pura e semplice necessità. Egli non decide affatto di infliggere una punizione ai due giovani che si sono macchiati del sequestro e dell'omicidio della sua unica figlia. Le parole che Dong-jin rivolge ad uno sconcertato Ryu lo dimostrano chiaramente: "lo so, sei un bravo ragazzo, ma dovrò ucciderti. E sai perché dovrò ucciderti? Non posso perdonarti". La vendetta è un destino, che nasce dall'impossibilità per l'individuo di concedere il proprio perdono. Essa muore e si esaurisce solo nel momento in cui viene portata a termine, non prima però di aver consumato e dissolto tutti i soggetti che ha invaso.
È in questa visione del mondo, dominata dal destino, che risiede quella dimensione profondamente tragica che caratterizza il cinema del cineasta coreano. La vendetta, infatti, chiama vendetta e, analogamente a ciò che accadeva nel mondo tragico greco, in cui questa passione permeava intere generazioni, trasmettendosi di padre in figlio come una tara ereditaria, nei film di Park Chan-wook essa sembra regnare sovrana su un mondo in cui le azioni dei singoli individui si ritrovano a sottostare ad una cieca necessità. Come i protagonisti dell'Orestea sono tutti spinti dalle Erinni a vendicarsi dei propri consanguinei (Clitennestra del marito Agamennone, e, a sua volta, Oreste della madre Clitennestra), non possedendo alcuna facoltà di decidere del proprio destino, così i personaggi di Sympathy for Mr. Vengeance sembrano non avere alcuna possibilità di sfuggire all'influsso delle furie vendicative. Dong-jin si vendica dei due rapitori, ma viene a sua volta ucciso dai compagni terroristi di una delle sue vittime; Ryu stesso cerca vendetta sia nei confronti dei trafficanti di organi, colpevoli di avergli sottratto un rene e il denaro che doveva servire per l'operazione dell'amata sorella, sia nei riguardi dello stesso Dong-jin, reo di aver torturato e ucciso la sua fidanzata. La sequenza in cui entrambi i protagonisti si attendono l'un l'altro, Ryu in macchina sotto casa di Dong-jin, Dong-jin dentro la stessa casa di Ryu, mostra la sostanziale uguaglianza dei loro intenti: entrambi sembrano delle marionette manovrate da un oscuro meccanismo, sul quale però non possono esercitare alcuna influenza. Ma la loro condizione appare tanto più simmetrica quanto più consideriamo l'opera di cancellazione, attuata dalla vendetta, di qualsiasi codice morale insito nell'uomo, di qualsiasi Super Io inibitore di pulsioni etero e autodistruttive. Dong-jin sembra un uomo molto onesto e dotato di buon cuore: il suo affetto per la figlia è molto profondo e la sua partecipazione emotiva alla sorte dei suoi dipendenti, che malgrado le sue intenzioni ha dovuto licenziare, particolarmente sincera. Lo stesso Ryu è quanto di più lontano si possa immaginare dal freddo assassino capace di compiere efferati delitti: profondamente legato alla sorella, non è certo direttamente responsabile della morte della piccola rapita, alla quale non avrebbe esitato di prestare soccorso se solo si fosse accorto in tempo del pericolo che incombeva su di lei. Tuttavia, entrambi, una volta attivato il piano vendicativo, subiscono una metamorfosi morale. Dong-jin non esita ad uccidere un fattorino del tutto estraneo alla vicenda: il suo è un furore che non risparmia nessuno, nemmeno quel bambino avvelenato che aveva soccorso e sperato di salvare e a cui alla fine sembra non dare più alcuna importanza. Egli può solo compiere il proprio destino, senza curarsi delle conseguenze delle proprie azioni. Nondimeno, Ryu diventa lo spietato assassino dei tre trafficanti di organi, arrivando persino a nutrirsi dei loro reni. Un atto di cannibalismo questo, che non può che rimandare in modo simbolico ad uno degli elementi essenziali che compongono il sintagma passionale della vendetta: il tentativo di riequilibrare una situazione di rottura. Ryu, infatti, si riprende ciò che gli era dovuto, prima strappandolo con la forza ai tre malfattori, e poi reintroducendolo all'interno del proprio corpo. Ora, è proprio il tentativo di ristabilire un equilibrio che è stato rotto l'obiettivo principale che guida tutti i soggetti in cerca di vendetta: infliggere al proprio antagonista "una punizione ed un dolore ad un tempo, in modo da procurargli altrettanta sofferenza. La vendetta come si può notare, è innanzitutto un riequilibrio delle sofferenze tra soggetti antagonisti" (1).

Ma, qual'è il peso che può riequilibrare i piatti della bilancia? È questo uno dei temi fondamentali che ritroviamo nel secondo film della trilogia, Old Boy. Quest'opera mostra con assoluta evidenza come a pesare nel meccanismo della vendetta non sia affatto l'intenzione di chi commette il torto. Già, nel film precedente, Ryu non era direttamente responsabile della morte della piccola Yoosun, senza che per questo, agli occhi di Dong-jin, la sua colpa risultasse meno grave. Ma in Old Boy, Dae-su non ricorda nemmeno, per via della sua insignificanza, il delitto commesso, e, nonostante ciò, subisce una delle più terribili vendette che la mente umana possa immaginare. La stessa Mido, una volta venuta a conoscenza della ragione per cui Dae-su è stato imprigionato per 15 anni esclama: "non è possibile. Ti hanno rinchiuso per 15 anni solo per averlo detto?". Oggettivamente dunque l'azione di Dae-su, "l'aver parlato troppo", non costituisce un fattore di grande importanza per la morte della sorella di Woo-jin: egli non ne è direttamente responsabile. Tuttavia, "sia un granello di sabbia che una roccia nell'acqua affondano allo stesso modo": l'intenzione non ha alcun valore, l'inconsapevolezza degli effetti che un nostro gesto può generare non ha nessuna importanza. Ai fini del soggetto offeso l'unico parametro di riferimento per calibrare la forza dell'azione vendicativa è il proprio sentire, il dolore che ha provato e il tentativo di restituirlo al proprio soggetto antagonista. Tentativo, questo, che può rivelarsi molto arduo: gli uomini sono molto diversi gli uni dagli altri e ciò che può provocare sofferenza all'uno può lasciare indifferente l'altro. È a questo punto, allora, che si inserisce la dimensione puramente cognitiva e simulacrale della vendetta. La vendetta richiede un certo "rinvio temporale", necessita di uno studio approfondito della dinamica della sua attuazione e dell'oggetto su cui si dovrà abbattere: può essere insomma progettata e rinviata per anni senza per questo perdere di intensità. "La vendetta è già cominciata 13 anni fa", pensa Geum-ja, protagonista di Sympathy for Lady Vengeance, rispondendo tacitamente alla domanda di una sua ex compagna di carcere in merito all'attuazione dei suoi piani. La vendetta ha pertanto inizio nel momento in cui si viene offesi e non nell'istante della sua effettiva esecuzione. Il ricordo del torto subito può dunque non scomparire, ma cristallizzarsi nella memoria generando un sentimento vendicativo che può essere indefinitamente differito: la pazienza è una dote di fondamentale importanza per la buona riuscita del piano. Woo-jin corona il suo sogno poiché ha saputo attendere innumerevoli anni, senza per questo consumarsi nella frustrazione di non vedere attuati i propri propositi. Il differimento del piacere, tuttavia, è possibile solo in quanto il soggetto, nel trascorrere dei giorni, ha saputo cullarsi in un sogno-simulacro sostitutivo, nel quale ha potuto realizzare i propri intenti innumerevoli volte. In Sympathy for Lady Vengeance il sogno di Geum-ja, in cui la protagonista uccide un professor Baek tramutato in un uomo-cane, esemplifica pienamente il ruolo che i simulacri passionali rivestono nel soggetto che si vuole vendicare: il piacere del compimento viene continuamente anticipato, arricchito di nuovi particolari, alcuni fantastici, altri da riprodurre nella successiva esecuzione del piano, in modo da preparare il soggetto a quell'estasi suprema che si compierà con l'attuazione della vendetta. Da questo punto di vista non ci si può più stupire dell'incredibile ingegnosità del piano architettato da Woo-jin: vi è una sorta di creatività artistica nella vendetta, resa possibile dalla sua lunga gestazione, che tanto più si compiace quanto più riesce a generare dolore nel proprio oggetto.
Il piano vendicativo, dunque, richiede tempo, inventiva e soprattutto dedizione. Una dedizione che si concretizza in un'estrema cura verso il proprio soggetto antagonista, e che non può che sconfinare nell'amore. L'amore per la propria creatura, osservata, studiata e condizionata per anni al fine di realizzare il proprio supremo desiderio, si manifesta nel modo più chiaro nella sequenza in cui Woo-jin entra nella stanza d'albergo dove Mido e Dae-su giacciono addormentati: lo sguardo intriso di desiderio celato dalla maschera antigas, il morbido gesto della mano che accarezza il corpo di Mido, l'abbraccio simbolico a queste due creature, denotano uno spirito protettivo che si riserva solo all'oggetto amato, all'unica cosa, cioè, che può realizzare il desiderio più grande e procurare il sommo piacere. Il piacere della vendetta però è un piacere definitivo, un orgasmo di tale potenza che non può che portare alla distruzione dell'individuo che lo prova. La vendetta è infatti un sentimento totalizzante, che, una volta realizzato, non lascia scampo all'uomo: come in un amore totale il soggetto si perde completamente nel proprio sentimento, così nella vendetta l'uomo arde e si consuma in modo irreversibile. Il desiderio che lo spirito vendicativo promuove, una volta soddisfatto, spegne la vita del soggetto, uccidendolo simbolicamente. Dong-jin viene sì ucciso da qualcun altro, ma solo quando lo scopo della sua vita, il desiderio che ha divorato la sua moralità e la sua identità, si è già realizzato. L'individuo di prima, il signor Park, è già morto da tempo. Woo-jin, invece, esplicita a chiare lettere l'impossibilità di continuare ad esistere, una volta che la vendetta si è compiuta: "e adesso, - esclama - per quale altra gioia dovrei vivere?". Se il desiderio vive di mancanza e si alimenta ogni volta che passa da un oggetto posseduto all'altro, una volta che la soddisfazione suprema ha avuto luogo esso non può che spegnersi in maniera definitiva. Anche se il corpo continua a vivere, l'anima, il cui motore è proprio il desiderio, muore nel momento in cui il piacere totalizzante della vendetta si realizza. Non vi è alcuna speranza di redenzione, nessuna salvezza, per chi compie il proprio destino. Solo un piacere sublime ed una sconfinata sofferenza, come traspare dal volto di Woo-jin alla fine del suo percorso esistenziale: sofferenza per ciò che sta perdendo, proprio nel momento stesso in cui lo sta per assaporare. L'autodistruzione è dunque inevitabile e la possibilità di dimenticare non può essere vista in alcun modo come un'opportunità di salvezza. Dae-su, infatti, dimenticando rinnega la propria vecchia identità, quella più consapevole. La cancellazione di un ricordo isolato non può avvenire senza la sparizione di tutti gli elementi ad esso collegati. Il dolce oblio in questo caso non può non coinvolgere anche l'esito finale del suo programma vendicativo: l'impossibilità di portare a compimento la propria vendetta è un elemento non meno terribile del rapporto incestuoso con la propria figlia. Per chi, come Dae-su, ha cercato in tutti i modi di portare a termine il proprio piano di riequilibrio delle sofferenze, l'umiliazione più grande può solo risiedere nella sottomissione al potere del proprio antagonista e nel riconoscimento del fallimento del proprio programma narrativo. Più che ad una rinascita, allora, il percorso di Dae-su verso una totale inconsapevolezza fa pensare ad una condanna, la condanna edipica a non vedere con i propri occhi gli orrori e gli errori commessi, ad occultare ciò che si è diventati per il timore di guardare nell'abisso e per l'incapacità di accettare il proprio destino.

Ma è possibile una purificazione della vendetta? Può la vendetta attenuare le sue pulsioni distruttive e, cancellando il dolore, salvare l'uomo che la porta a termine? Una risposta a questi interrogativi non può essere data senza considerare il sottile divario che separa la vendetta dalla giustizia. Sia la giustizia che la vendetta sono due reazioni proprie dell'uomo, che mirano a riequilibrare uno stato. L'elemento differenziante risiede però nella dimensione collettiva che caratterizza la prima: mentre la vendetta è, in quanto passione, individuale, la giustizia, in quanto istituzione, coinvolge l'universo sociale. Quando però la vendetta diventa collettiva i confini si fanno quanto mai labili. Ora, sono proprio i complessi rapporti tra vendetta e giustizia che vengono analizzati a fondo nell'ultimo capitolo della trilogia, Sympathy for Lady Vengeance. In questo film, appare manifesto come la con-divisione della vendetta riesca ad attenuare le componenti auto-distruttive che questa passione attiva nei soggetti vendicatori. Tutti i familiari delle vittime, una volta vendicatisi del professor Baek, reo di aver ucciso i loro figli, sembrano avere di nuovo la possibilità di ritornare ad una vita più o meno normale. Nella riunione finale all'interno della pasticceria il pensiero di molti va difatti non più alle vittime, ma alla restituzione dei soldi pagati per il riscatto. Il dolore sembra sparito. La stessa Geum-ja del resto, al contrario dei due protagonisti maschili dei precedenti film, non sembra destinata ad un'inevitabile autodistruzione, sia essa fisica o spirituale: ella sembra avere in sé tutte le potenzialità per anelare ad una purificazione del proprio io. Tuttavia, la vendetta di Geum-ja, introducendo la dimensione sociale nell'atto vendicativo, si sovrappone e si confonde con l'agire della giustizia. La collaborazione dell'ufficiale di polizia, il voto democratico con cui i familiari delle vittime decidono di non consegnare l'assassino, e la definizione fredda e precisa delle procedure con cui il colpevole dovrà essere punito non ci possono non far pensare ad una vera e propria condanna a morte. Ma questa vendetta collettiva più che una "giusta punizione" non è forse un semplice linciaggio? Non ci può essere una risposta univoca a questo interrogativo. Tra vendetta, linciaggio e giustizia non esistono barriere sostanziali, quanto piuttosto dei confini molto evanescenti e dei gradienti di diversa intensità. Se questa vendetta collettiva possa chiamarsi giustizia oppure no resta una questione semantica, ancor prima che morale. Di certo, nella punizione di Baek ritroviamo un forte elemento rituale, essenziale nella giustizia. Un elemento che attenua l'impulso irrefrenabile ad agire tipico dell'atto vendicativo ed introduce una dimensione più "riflessiva". Tramite il rito, infatti, "la comunità sociale si dà in spettacolo a sé medesima e, così facendo, si dota delle regole necessarie al proprio gioco" (2). La punizione come rituale introduce delle regole nell'esperienza attenuando la passionalità dell'atto vendicativo. Non solo. Riflettendo il gruppo sociale che vi prende parte, il rito mette in scena una rappresentazione collettiva, nella quale ogni partecipante è sia esecutore che spettatore. Nella possibilità concessa ad ogni membro del gruppo di assistere ad uno spettacolo quanto mai tragico risiede forse la potenzialità catartica di questa esecuzione, che, trasformando la vendetta in un atto purificatore, libera tutti i partecipanti dagli aspetti più terribili e distruttivi di questa passione, così come nell'antica Grecia la rappresentazione tragica, "tramite pietà e terrore" (3), portava a compimento "la purificazione delle passioni" (4) suscitate negli spettatori durante l'azione drammatica.
Concludendo, i film di Park Chan-wook hanno la straordinaria capacità di tramutare in forma narrativa problemi esistenziali e filosofici millenari. La radiografia della vendetta messa in campo nelle sue opere non può non coinvolgere altri temi fondamentali per l'uomo, come il dolore, il destino e la necessità di giustizia. Il cinema in questo caso riesce, ancora una volta, a pensare per immagini, consentendo all'astrattezza del pensiero di incarnarsi nel vissuto concreto dei singoli uomini.
Note:
(1) Greimas, A. J Del Senso 2. Narrativa. Modalità, Passioni, Bompiani, Milano 1985.
(2) Landowski, E., La società riflessa. Saggi di Sociosemiotica, Meltemi, Roma 1998.
(3) Aristotele, Poetica, Utet, Torino 2004.
(4) Aristotele, Poetica, Utet, Torino 2004.