La comunicazione esistenziale in Eyes Wide
Shut: riflessi di Kierkegaard nell’interminato e terminale Kubrick
di Francesco Priano
Eyes Wide Shut è il film
della crisi. Una crisi percepibile in ogni frammento del film,
connaturata al DNA stesso del testo cinematografico. Crisi che
è gia evidente nel titolo, contraddittorio, enigmatico,
che non si lascia inquadrare nella nostra esperienza quotidiana.
Eyes wide shut, occhi aperti e chiusi, spalancati ma serrati,
questa sarebbe la traduzione più fedele di un'espressione
che nella lingua inglese non esiste, ricavata dall'accostamento
di due lemmi che si contraddicono. Eyes wide shut non è
altro che una dicotomia scritta, un forzato avvicinarsi di elementi
opposti, che segna ed esaurisce il significato del film.
Il film della crisi, si diceva, che è
innanzitutto crisi del linguaggio, sia esso cinematografico
o letterario, non più capace di rendere lo scarto fra
finzione e realtà, tramutando la prima nella seconda
e smarrendo il significato di quest'ultima. Ad entrare in crisi
sono pertanto le certezze, certezze su come si faccia un film
e soprattutto se un film debba avere un qualche obiettivo, debba
dire qualcosa di limpido, debba riferirsi a qualcuno e inscatolarsi
dentro un genere predefinito. Eyes Wide Shut certezze
non ne dà, non vuole darne, poiché vive di un'ambiguità
cristallina: in questo senso rappresenta un esempio sublime
di comunicazione d'esistenza, termine con il quale ci
si riferisce a tutta quella particolare produzione di significati
che non si occupa di convincere il ricevente, di fornirgli una
verità astratta, un oggettività, una certezza
appunto, ma piuttosto si preoccupa di sollevare dei dubbi, ed
eventualmente indirizzare verso la verità. Quattro
sono stati i grandi maestri della comunicazione d'esistenza:
Cristo, Socrate, Kierkegaard e, forse, Kubrick. Se il filosofo
danese ha rappresentato il trait d'union fra la predicazione
di Cristo e la maieutica socratica, Kubrick cerca, invece,
di lanciare il messaggio esistenziale di Kierkegaard attraverso
le immagini, i colori e i suoni del cinema. L'opera dei due
parte dagli stessi presupposti: una situazione comunicativa
ritenuta radicalmente falsa, il cui statuto non dipende
tuttavia dal minore o maggiore contenuto di verità, ma
piuttosto dal rapporto fra emittente e ricevente, che costituisce
appunto la situazione comunicativa e quindi la stessa comunicazione.
La falsità in Kierkegaard deriva, innanzitutto, dalla
ricerca di voler a tutti i costi somministrare al ricevente
una verità preconfezionata, calata dall'alto, o ancora
peggio dalla necessità di uniformarsi a dati comportamenti
o stili di vita. Spesso, infatti, chi crea dei modelli, pretendendo
che gli altri vi si adeguino, è il primo a tradirli,
non "re-duplicando" di fatto il loro messaggio d'esistenza:
sublime è in tal senso la definizione che il filosofo
danese dà dei suoi "colleghi" accademici, con
probabile riferimento ad Hegel, che "costruisce il grandioso
palazzo del suo sistema ma, quanto a lui, abita nel fienile".
Per Kubrick siamo sulla stessa frequenza d'onda: chi ci dice
che un film debba essere un horror, un thriller o un sentimentale?
Perché non possiamo fare film che siano semplicemente
film?
Proprio questo è Eyes Wide Shut,
un film che non racconta né un tradimento né un
assassinio, un film erotico senza alcun rapporto sessuale (la
tanto chiacchierata scena dell'orgia non mostra altro che la
meccanica reificazione dei movimenti dei personaggi), un thriller
senza il morto (la prostituta, nel suo etereo pallore non rappresenta
altro che un estensione posticcia delle pulsioni sessuali di
Ziegler). Eyes Wide Shut racconta la vita, anzi la mette
in mostra. In un'epoca che adora il feticcio, che ha dimenticato
"che cosa significhi esistere e cosa sia l'interiorità",
non si può utilizzare la cosiddetta comunicazione diretta,
propria di quel sapere oggettivo e principale responsabile di
tale dimenticanza: occorre servirsi della forma indiretta. E
quale forma di comunicazione è più indiretta di
un film come Eyes Wide Shut, orgogliosamente a-referenziale
verso ogni tipo di target o categoria? Per raggiungere le personalità
("è alla personalità che occorre arrivare")
Kierkegaard sostiene che si debba "portare degli Io in
mezzo alla vita", ovvero creare delle possibilità
di esistenza, delle maschere (ed è a questo che serve
la Pseudonimia in Kierkegaard) che si presentino come degli
Io autonomi. In sostanza Kierkegaard crea dei personaggi che
all'interno delle sue opere espongono la propria concezione
di vita e la propria posizione esistenziale, rappresentando
molteplici possibilità di vita e dell'Io. Tramite quest'espediente,
egli non si preoccupa di dirci quale sia la migliore esistenza
possibile, ma ci costringe a mettere a confronto ciò
che siamo con ciò che potremmo essere, l'unicità
della certezza con l'infinità della possibilità.
Quel singolo esistente a cui ci si riferisce dovrà potersi
specchiare nelle sue opere e nelle possibilità di esistenza
in esse rappresentate, riconoscendosi o distanziandosi da esse,
vivendo un esperienza di identificazione o di repulsione, ma
comunque sarà costretto a risvegliare la propria attenzione
sulla realtà. "Tutta la mia feconda attività
di scrittore si riduce a quest'ultimo ed unico pensiero: colpire
alle spalle". Kierkegaard vuole colpire alle spalle chi
vive un'esistenza inautentica (sebbene sia l'unico orizzonte
possibile), costringendolo a riflettere, a confrontarsi con
la realtà. E che cosa c'è di più vicino
a questo concetto di "pugnalata alle spalle" se non
l'intera filmografia di Kubrick? Basti pensare a 2001: Odissea
nello spazio, in cui il regista americano ha mascherato
una riflessione sulla dottrina dell'"oltreuomo" nietzscheano,
e sul destino del rapporto simbiotico fra uomo e universo, sotto
una babilonia di stupefacenti effetti speciali, facendoci credere
di aver creato un film di fantascienza e realizzando invece
un capolavoro filosofico-visionario sull'evoluzione della razza
umana. Questo si chiama pugnalare alle spalle, questo è
smuovere le coscienze, questo è Kubrick.
Eyes Wide Shut rappresenta, di fatto,
un ulteriore passo sulla via della comunicazione esistenziale.
Il film si apre con una scena rassicurante: una giovane coppia
della media borghesia newyorchese, benestanti e di bella presenza,
con la loro splendida bambina. Lui, medico affermato, lei ex
direttrice di una galleria d'arte e ora madre a tempo pieno.
Ecco William Harford (Tom Cruise) e la sua dolce metà
Alice (Nicole Kidman), osservati mentre si preparano per recarsi
ad una festa, a casa di Victor Ziegler, ricco magnate e amico
della coppia. I preparativi sono del tutto banali, quasi noiosi,
ma un primo indizio di crisi compare fin dalle prime battute:
Bill cerca invano il suo portafoglio che, come gli fa notare
la moglie, si trova davanti ai suoi occhi. Proprio la cecità
di fronte all'evidenza, l'incapacità di arrendersi di
fronte alla realtà e alla sua natura sfaccettata e frammentaria,
costituisce il filo rosso che percorre l'intera pellicola di
Kubrick: Bill vede nella sua vita l'unica possibile realizzazione
di sé stesso, non considera la dimensione del cambiamento,
la possibilità di un'esistenza alternativa. Tuttavia,
alla festa di Ziegler, cominciano a farsi strada nuove interessanti
prospettive: gli basta allontanarsi un poco dalla moglie per
venire letteralmente assalito da due meravigliose modelle che
tentano un approccio con la promessa di condurlo "alla
fine dell'arcobaleno". Dietro a questa espressione infantile
si nasconde in realtà un significato ben più profondo:
la parola "rainbow", che ricorre più volte
nel corso del film, ha tra i suoi significati quello di arco,
ponte, e curiosamente si ricollega a 2001: Odissea nello
spazio, dove il protagonista si chiamava Bowman, uomo-arco,
in omaggio alla già citata teoria dell'"oltreuomo"
nietzscheano. Se Bowman riusciva però ad evolvere, mettendo
a rischio la sua stessa esistenza biologica, Bill rimane ancorato
alla propria realtà, rifiutando di fatto ogni nuova prospettiva
che gli si para davanti.
Le porte della possibilità e della
sfaccettatura del reale, che egli ostinatamente nega, non tardano
tuttavia a spalancarsi: al suo ritorno a casa, dopo aver fumato
marijuana con la sua consorte, Bill intraprende una discussione
sullo scivoloso terreno della fedeltà coniugale. Alice
considera normale che le due ragazze che lo hanno abbordato
alla festa non cercassero altro che un rapporto sessuale, come
considera normale che, talvolta, egli provi una qualche attrazione
per le pazienti che visita nel suo studio medico. Lui al contrario,
assorbito dalla sua logica maschilista e fallocentrica, non
considera possibile che sua moglie abbia un altro orizzonte
oltre a quello della famiglia, senza comprendere come la routine
stia distruggendo il loro legame, che oramai si nutre solo dell'abitudine
e dell'apparenza. "Lo sai come sono, penso in bianco e
nero": è sintomatico che, con questa frase, Bill
esemplifichi la propria visione del rapporto coniugale. Sua
moglie non è altro che sua moglie, e dopo aver espletato
la sua funzione primaria, ovvero quella di procreare, ha assolto
il suo compito e ora deve unicamente crescere la loro bambina.
Alice (che come la protagonista del romanzo di Lewis Carroll
sembra aver attraversato lo specchio e aver scoperto la duplicità
del reale e le molteplici intersezioni della realtà con
il sogno) dà una netta scossa a questa concezione, rivelandogli
invece una verità che mai avrebbe immaginato: pochi mesi
prima, durante una vacanza all'estero, sarebbe stata disposta
a gettare la propria vita coniugale per un avventura con un
uomo che neppure conosceva e che aveva visto solo di sfuggita.
Mentre Alice rivela al marito questa scioccante notizia, è
appoggiata alla finestra da cui proviene una luce blu-azzurra
irreale, come a suggerire che la realtà svelata proviene
da una dimensione che non appartiene a quella del rapporto fra
i due coniugi. Bill non risponde, non è in grado di farlo
poiché sono stati spezzati tutti i suoi ottusi schemi
mentali. A rompere la situazione di impasse, giunge all'improvviso
la chiamata di una paziente che necessita assistenza per il
padre. Bill lascia così la casa distrutto psicologicamente,
e continuando a rimuginare sul tradimento "in potenza"
della moglie (sono frequenti le sequenze in cui si figura la
scena, chiaramente in bianco e nero) giunge nella casa della
paziente, arredata in stile neoclassico come la sala della scena
finale di 2001: Odissea nello spazio: qui Bill trova
un vecchio amico appena defunto, e la sua figlia disperata che
cerca conforto e che inspiegabilmente cerca di baciarlo. Nella
sala dove Bowman realizzava la fusione panica dell'Io nel passato,
presente e futuro della Natura, Bill rivela la sua natura di
esteta a metà: vive nella dimensione della possibilità,
che inizia a scoprire da questo momento, ma non è né
capace di godere di ciò che gli viene offerto, né
d'altra parte è in grado di operare una scelta, un motivato
rifiuto che lo qualifichi eticamente. Non vive questi episodi,
ma è vissuto da essi, e di fronte alla realtà
non capisce e fugge imbarazzato.
Inizia così la sua personale odissea,
fra continue scoperte e possibili strade che gli si aprono davanti.
Il passo successivo è l'incontro, scontato, con una prostituta,
con la quale va soltanto vicino ad un rapporto sessuale. Bill
non sa cosa vuole: se volesse tradire la moglie ne avrebbe la
possibilità, ma invece non lo fa, arriva ad un passo
e si ritira. Non è capace di scegliere, ha gli occhi
chiusi su una realtà variopinta che non riesce ad afferrare
completamente, che si avvicina a comprendere, ma che inevitabilmente
gli sfugge. Il suo sguardo ha smarrito la capacità cognitiva,
è shut. Bill sta smarrendo progressivamente il
suo Io e pertanto cerca una nuova dimensione che gli dia conforto,
dopo aver alzato il velo su una realtà variegata che
si ostinava a negare. La tappa successiva è il "Sonata
Café" dove incontra l'amico Nightingale, il pianista
che rappresenta gli occhi che si sforzano di vedere: egli, pur
attraverso le bende con cui è costretto a suonare, è
riuscito ad intuire qualcosa che si avvicina alla realtà.
Così Bill viene condotto ad una festa privata, dove è
costretto a recarsi mascherato e in incognito: sintomatica è
anche qui la scelta del protagonista, che in un negozio di nome
"Rainbow" ignora i carnascialeschi e variopinti travestimenti
preferendo un abito nero, e indossando quella maschera che rappresenta
la sua esistenza inautentica. Per farsi consegnare un costume
dal proprietario del negozio, lo stravagante Milich, Bill (che
in lingua inglese significa proprio banconota) espone
più volte il tesserino di medico e i contanti: cerca
pertanto di rifugiarsi nella rassicurante identità medio
borghese, che ha però oramai irrimediabilmente perduto.
La scena madre del film si svolge in una
villa fuori città. Bill riesce a penetrare nella festa
e scopre un mondo nascosto a lui completamente sconosciuto:
all'interno dell'abitazione un sacerdote mascherato sta celebrando
un rito dionisiaco-orgiastico. Bill non vi prende parte, si
limita a guardare, è perplesso e inebetito: nei giorni
di Natale si configura infatti come un festeggiamento al rovescio,
un rituale rivolto a potenze oscure che mostra la prevaricazione
e l'incapacità di re-duplicare il messaggio esistenziale
del Cristianesimo, che si rivela essere sempre di più
una dottrina svuotata di significato, un'esperienza piatta,
lontana dallo "scandalo" che lo stesso Kierkegaard
desiderava che essa fosse. Simbolica è anche la parola
d'ordine che viene richiesta all'ingresso: Fidelio, titolo
di un opera di Beethoven il cui sottotitolo è guardacaso
l'amor coniugale. La scelta suona chiaramente beffarda,
ma anche qui Bill non nota nulla, e si avventura nei meandri
della villa alla ricerca di qualcosa che continuamente gli sfugge.
Quando sembra che stia per immergersi nella perversione del
rituale si blocca e viene bloccato: una donna misteriosa gli
intima di fuggire, ma lui non capisce e decide di rimanere,
firmando così la sua condanna. Scoperta la sua natura
di intruso, viene condotto al cospetto del capo della loggia,
che gli chiede una seconda parola d'ordine. Si celebra qui definitivamente
la sconfitta del logos, dal momento che la seconda parola d'ordine
non esiste e Bill, tradito, è costretto a togliersi la
maschera. Egli esita, poiché comporterebbe la perdita
di una copertura, di un doppio, e del definitivo abbandono alla
sua identità, oramai arida di certezze. Tutto intorno
gli uomini mascherati sono il contorno della sua esperienza:
essi riescono a vivere in maniera serena la duplicità
e, sebbene nascosti dietro a maschere, sono in questo senso
più "reali" di Bill. Nel momento in cui gli
sta per essere intimato di svestirsi per compiere l'atto sacrificale,
una donna, la medesima che gli aveva precedentemente suggerito
la fuga, si offre al suo posto. Bill riesce pertanto a salvarsi
in maniera improbabile, e fa ritorno impaurito a casa, assistendo
impassibile alla deriva e alla dispersione della propria identità.
Una volta a casa lo attende una nuova sorpresa: la moglie gli
confida impaurita di aver avuto un'esperienza orgiastica, di
tipo onirico, di fatto analoga alla sua. Anche sotto questo
punto di vista Alice si configura pertanto come un personaggio
più evoluto rispetto a Bill, in quanto assimila verbalmente
e mentalmente la propria esperienza e la propria necessità
di cambiamento
La mattina seguente ha inizio una seconda
odissea. Bill, ormai definitivamente disorientato, si reca da
Milich per restituire il costume: manca la maschera, ma non
ci fa caso, esibisce nuovamente il portafoglio e rifiuta di
capire. Ciò che lo colpisce è invece la trasformazione
di Milich, che se nel precedente incontro non aveva perso occasione
di rimproverare duramente la figlia per averla scoperta seminuda
nel suo negozio con due estranei, ora egli di fatto la sfrutta
per incrementare i propri profitti. Ormai rapito dagli eventi,
egli decide di far luce su quanto visto la notte nella Villa
De Sade, nonostante gli fosse stato fortemente sconsigliato
dal gran cerimoniere dell'ordine. Così scopre che il
suo amico pianista è sparito misteriosamente, portato
via da due uomini dall'albergo dove alloggiava, e che la donna
che lo aveva salvato è morta. Bill è frastornato,
ma forse per la prima volta si rende conto di quanto abbia rischiato.
Una chiamata sul telefonino lo riporta alla realtà: è
l'amico Ziegler, che lo esorta a recarsi immediatamente da lui.
Giunto alla sontuosa abitazione inizia una delle scene fondamentali
del film: il protagonista viene ridotto ad un ruolo marginale
e perde definitivamente ogni tipo di sicurezza, mentre il potente
demiurgo gli apre gli occhi sulla realtà. Anch'egli era
nella villa, ha visto tutta la scena e cerca di capire quali
fossero le sue reali intenzioni. Bill non sa rispondere. Sublime
l'analogia fra la vita e il biliardo: Bill, come una pallina
nelle mani di Ziegler, viene sballottato qua e la senza alcuna
finalità apparente, evitando sempre fortunosamente la
buca. Quando gli viene domandato se voglia giocare o meno, Bill
risponde in maniera significativa: "I don't play, I watch",
che in un certo senso rappresenta il suo motto esistenziale.
Egli però non si arrende, vuole spiegazioni, ma Ziegler
è lapidario: è stata tutta una sciarada,
una finzione per spaventarlo, il pianista è in realtà
su un aereo per Seattle, mentre la misteriosa donna altri non
era che una volgare prostituta, morta di overdose. Nulla è
più credibile di una menzogna ben raccontata e, se manca
il crimine, manca il colpevole. E manca anche un genere ben
definito.
Con il ritorno a casa del protagonista
si consuma l'ultimo atto del film. Bill, entrando in camera,
è preda di una visione orrorifica: la maschera, che aveva
creduto persa, è poggiata sul suo cuscino e dorme al
fianco di sua moglie. Ora gli è tutto chiaro, la sua
vita non era che una maschera, un esistenza superficiale ed
inautentica, ma prima di tutto non era che una delle tante maschere
possibili. Sveglia la moglie e le racconta tutto. Ormai tutto
è cambiato, o così sembra. La mattina successiva,
quella della vigilia di Natale, i coniugi, pur sconvolti, sono
costretti ad accompagnare la figlia al negozio di giocattoli,
per la compera dei regali. Non è un caso che il primo
gesto di Alice, appena sveglia, sia spegnere l'albero di Natale:
il Cristianesimo, e i suoi simboli, sono una favola vuota, e
la sua luce emana bagliori fuorvianti. Bill, che sembrava aver
imparato la lezione, in realtà non chiede altro che ritornare
nella sua comoda e rassicurante vita, alla dimensione coniugale
precedente, senza capire che essa è stata definitivamente
compromessa. In questo senso è da intendersi il "per
sempre" con cui egli chiede fedeltà alla moglie.
Bill si rifugia in un istante senza tempo, eterno, che non prevede
l'evoluzione. Lei è più disillusa, la parola "sempre"
la terrorizza, vuole semplicemente sincerità, e sa che
essa arriverà attraverso un cambiamento: in quest'ottica
si configura la richiesta di fare l'amore, che chiude il film
(espressa a dire il vero con un espressione ben più cruda
in inglese), un richiamo a una dimensione concreta, quasi biologica,
dopo le speculazioni mentali dei due protagonisti.
Eyes Wide Shut è un'opera
d'arte che apre gli occhi, che lascia spazio a molteplici interpretazioni:
non racconta nulla, vuole che sia ciascun spettatore a trarre
le sue personali conclusioni e a riflettere sul senso della
vita. È uno schiaffo alle certezze, ma soprattutto alla
tendenza ad inscatolare la vita e l'opera d'arte dentro categorie
vuote di significato, riducendo ciò che è molteplice,
variegato e si nutre dell'infinita dimensione della possibilità
in uno schema mentale statico e immobile.