Uncle Josh, Jeff e Thomas: l’evoluzione dell’esperienza spettatoriale (?)
di Roberto Pansini
"Un film molto dinamico il cui protagonista è però una figura statica che si trova in un'unica posizione, all'interno di una stanza, per l'intero film. Tuttavia, La finestra sul cortile è cinema allo stato puro". Con queste parole lo stesso Hitchcock definiva il suo capolavoro in un'intervista rilasciata nel 1963. E come dargli torto. Cosa c'è infatti di più cinematografico di una pellicola che ci offre la visione di un protagonista/spettatore che osserva fuori da una finestra/schermo una realtà/film? Invero, con questa opera, il maestro inglese non fa altro che mettere su celluloide una vicenda che è un'allegoria (tra l'altro neanche troppo velata) dell'esperienza di uno spettatore davanti ad uno schermo cinematografico. Per anni i critici, analizzando Rear Window, si sono soffermati prevalentemente sul tema della denuncia del voyeurismo dilagante nella società moderna, prendendo in esame solo in un secondo momento l'aspetto estremamente più significativo della visione spettatoriale. A ben guardare, infatti, lo spettatore è il fine ultimo di tutti i lavori di Hitchcock: "la sua presenza, la sua evocazione, il suo intervento sono delle costanti del suo cinema, tanto da farne un luogo privilegiato per l'analisi delle tecniche conversative". Tutta l'opera è così paradigmatica dell'esperienza dello spettatore cinematografico, tanto da dimostrare alla lettera la regola secondo cui "chi è di fronte allo schermo tende ad aderire a ciò cui sta assistendo, a partecipare al destino dell'osservato fino a confondersi con esso".

Questo, infatti, è ciò che accade al nostro protagonista Jeff, fotoreporter costretto all'immobilità su una sedia a causa di una frattura ad una gamba, che mentre scruta fuori dalla finestra del suo appartamento, per passare il tempo durante la convalescenza, scopre un omicidio e lo denuncia, rischiando nel finale di essere a sua volta ucciso dall'assassino, venuto ormai a conoscenza di essere stato scoperto. La finestra sul cortile si inserisce così nel filone di pellicole che hanno scandagliato, fin dalle origini del cinema, il complicato rapporto esistente tra spettatore e opera cinematografica. Filone che ha il suo capostipite più famoso in Uncle Josh at the moving picture show di E.S.Porter (1902). Sostanzialmente, infatti, La finestra sul cortile non fa altro che portare avanti il discorso iniziato da Porter una cinquantina di anni prima, aggiungendo alcuni tasselli importanti e complicando (almeno in apparenza) la questione. Jeff appare così come un moderno Josh, che attratto da ciò che vede non riesce a starne lontano, tanto da farsi travolgere nell'azione che fino a poco prima aveva guardato come un osservatore passivo. Se però l'opera di Porter presentava risvolti comici, con il povero Josh che veniva sostanzialmente deriso per la sua ignoranza riguardo al mezzo cinematografico (che lo portava a scambiare l'illusione per realtà), qui le cose si fanno più serie. Se non altro perché Jeff rappresenta noi stessi, proprio noi che siamo in sala e come lui stiamo seguendo con apprensione le vicende che scorrono davanti ai nostri occhi. Il fatto che la pellicola appartenga al genere thriller è infatti assolutamente irrilevante: Jeff guarda fuori dalla finestra molto prima di sospettare alcunché, e la scoperta dell'omicidio è puramente casuale, se non secondaria da questo punto di vista. Qui la riflessione sulla dicotomia rappresentazione/realtà si complica, chiamando in causa anche quelle di relatività/oggettività e apparenza/verità.
Hitchcock si dimostra molto attento a sottolineare l'importanza del punto di vista all'interno dell'opera, per dare ancor più rilievo al concetto di soggettività della visione. Tutta la pellicola risulta, infatti, composta da inquadrature soggettive, che ci forniscono dunque la visuale esclusiva di Jeff. L'obbiettivo della macchina da presa coincide insomma con i suoi occhi, e quindi simbolicamente con i nostri. Questo per tutta la durata del film, tranne che in una sequenza. Dopo la notte passata in bianco ad osservare il signor Thorwald nel tentativo di capire cosa stia facendo, Jeff cede al sonno e si addormenta. Segue una dissolvenza in nero, e poi un piano sequenza che parte dall'immagine di Jeff addormentato sulla sedia, si sposta a riprendere fuori dalla finestra, mostrandoci Thorwald che esce di casa la mattina presto accompagnato da una donna, per poi ritornare, infine, sull'immagine iniziale del protagonista assopito. Pur mantenendone le caratteristiche, questa inquadratura non può essere definita propriamente una soggettiva, in quanto Jeff sta dormendo. L'autore svela così la presenza di un osservatore esterno, l'esistenza di un punto di vista oggettivo, che permette allo spettatore, seppur per un attimo, di distaccarsi dal campo visivo del protagonista per acquistarne uno proprio. Questa ripresa, insomma, palesa la presenza del pubblico/osservatore (che fino a questo momento si era totalmente identificato con il protagonista), che in questo modo diventa parte attiva della vicenda. Il regista, che conosce bene i pensieri e i desideri dell'osservatore, decide così di esaudirli, permettendogli di acquisire una visione onnisciente, proprio nel momento in cui questa appare maggiormente necessaria. Ma come spesso accade nella filmografia di Hitchcock, questa trovata, che può sembrare a prima vista un aiuto esplicito per lo spettatore, si rivela un metodo subdolo per portarlo invece fuori strada. Il procedimento fa parte di quella tecnica definita dallo stesso autore "MacGuffin", ovvero "tutti quei falsi indizi, quelle tracce disseminate ampliamente lungo il percorso narrativo che si rivelano fallaci". Si affaccia qui il tema del dualismo apparenza/realtà tanto caro al regista inglese, e già presente in altri suoi film, tra i quali Young and Innocent, Psycho e Intrigo Internazionale. In un certo senso rispetto alla vicenda di zio Josh qui le parti si sono come invertite: se nel film di Porter era il protagonista a "cadere in trappola" e a credere in ciò che lo schermo del cinematografo gli proponeva, in La finestra sul cortile è lo spettatore a scivolare nel tranello teso dal regista. In Uncle Josh at the moving picture show erano l'autore e il pubblico a essere "coalizzati" nel deridere lo sprovveduto Josh, in Rear Window sono in un certo senso il personaggio principale e il regista a unire le forze nell'intento di "prendere in giro" lo spettatore. Tuttavia, lo scarto rimane isolato all'interno dell'opera: Hitchcock non ha intenzione di portare fino alle estreme conseguenze questa sorta di provocazione, tanto che, dopo poco, il punto di vista dello spettatore e del protagonista tornano a combaciare.
Se c'è un autore che ha avuto il coraggio di andare fino in fondo in questo percorso di ricerca, questo è sicuramente Michelangelo Antonioni con il suo Blow up. Film che, proprio per l'attenzione riservata all'esperienza spettatoriale e per le tematiche analizzate, si può considerare in qualche modo figlio di Rear Window e nipote di Uncle Josh…. Qui il regista italiano, incamerata l'esperienza hitchcockiana, si spinge oltre l'esperimento del maestro inglese, aggiungendo altra carne al fuoco. I due film presentano, infatti, molteplici e curiose analogie: i due protagonisti sono fotografi (e osservatori della realtà); entrambi scoprono un omicidio per puro caso e sono poi costretti a scontrarsi con lo scetticismo delle persone che li circondano; ambedue vengono a loro volta scoperti dai rispettivi assassini. Se Hitchcock però si era limitato all'inserimento di una sola e semplice inquadratura oggettiva, Antonioni "si inventa" una ripresa in semisoggettiva in cui il protagonista Thomas è allo stesso tempo osservatore ed oggetto dell'osservazione dello spettatore, terminando in qualche modo quel processo di abbattimento del confine simbolico (seppur fino a qui insormontabile) esistente tra i due ruoli già iniziato dal suo illustre collega. In questo modo spettatore e protagonista si trovano nella medesima condizione di chi ha perso ogni certezza. Entrambi non sono più sicuri di ciò che i loro occhi vedono, e neanche della realtà che li circonda. Con il dissolversi della funzione di osservatore, e del mondo osservato, si inaugura così un nuovo modello di "visione" (sintomatico dell'epoca moderna), che trova proprio nell'esperienza dello spettatore cinematografico il suo esempio principe.
Paradossalmente, insomma, e nonostante i decenni passati, lo spettatore (anche se in termini differenti) si trova ancora nella situazione vissuta dallo zio Josh, sempre in bilico tra finzione e realtà. L'unica sicurezza rimastagli è sapere che, in fin dei conti, questo stato d'essere è solo temporaneo, nonché immaginario.
Bibliografia essenziale:
Francesco Casetti, L'occhio del Novecento, Bompiani, Milano, 2005
Alfred Hitchcock, Hitchcock secondo Hitchcock, Baldini & Castoldi, Milano, 1996
Giorgio Simonelli, Invito al cinema di Hitchcock, Mursia, Milano, 1996